lunedì 23 novembre 2015

Quando c'erano le case chiuse e... Nannina pummarola. (Da La Città del 22/11/15)

di Rocco Papa


Salerno città timorata e ipocrita, come tutta l'Italia di quegli anni '50 post guerra, quando il boom economico cominciava far intravedere altri modi di vivere, altre spensieratezze e prendeva a farsi largo l'idea di potersi permettere anche qualcosa di superfluo, oltre al necessario per la sopravvivenza. Di superfluo, a Salerno come nel resto del Paese, c'era di sicuro la voglia di effusioni amorose che sfuggissero alla rigida logica del giaciglio coniugale. I bordelli non erano certo una novità di quegli anni, i casini esistevano già prima, da sempre, a partire dai “lupanari” degli antichi romani. La ricerca di un piacere sessuale mercenario, proibito e diverso, che la morale e l'educazione delle mogli dell'epoca non poteva soddisfare.
Effettuavo una ricerca per scrivere un romanzo ambientato a Salerno alla vigilia della chiusura delle “case chiuse”, la famosa legge Merlin del 1958, e come prima cosa mi son rivolto a qualche anziano nella speranza che potesse darmi delle delucidazioni sui luoghi del piacere in città. A dire il vero, le risposte che ho ottenuto sono state evasive, ma la faccia degli interlocutori la diceva molto lunga, del tipo: so molto bene, ma non voglio dire...
Visto che il progetto di scrivere quel libro è poi naufragato, mi sono rimaste alcune informazioni sulle quali mi è piaciuto ricamarci qualche pensiero. I “casini” ufficiali a Salerno erano in sostanza due, ubicati nel centro storico, a Piantanova una e l'altra nei pressi della Dogana Regia e la chiesa di San Pietro a Corte. Erano soprannominati la Centouno e la Cinquecentouno. Il nome derivava dal prezzo (in Lire) della marchetta, che i clienti pagavano per una “semplice”, che era definita in base al tempo a disposizione e non ad altro. La differenza di prezzo era già di per sé una distinzione di classe, come è facile intuire la prima era frequentata dai meno abbienti: soldati, operai, studenti. Probabilmente il luogo dove molti dei giovani salernitani di quegli anni hanno perso l'innocenza e, forse, anche un po' di sicurezza nelle proprie capacità. La seconda, quella più costosa, più pulita e di certo più discreta, era ad appannaggio di borghesi, commercianti, graduati e professionisti. Nessuno, o quasi, era immune al richiamo della carne, la scelta dipendeva dalla disponibilità economica e non era, a torto o ragione, uno scandalo. Ovviamente anche le donne che esercitavano il mestiere nelle case avevano caratteristiche che variavano a seconda del livello. Più giovani e belle quelle della cinquecentouno, un po' più attempate ed esperte quelle dell'altra.
L'altra via per soddisfare i propri istinti o bisogni, era quella delle “libere professioniste”, tollerate all'epoca come un male necessario. Molte di quelle che non volevano o non avevano trovato impiego nei casini, esercitavano in casa. Durante gli anni della guerra e dell'occupazione, quando la fame era davvero fame, sono stati in tanti a spingere addirittura le proprie figlie sulla strada. Da mangiare non c'era nulla, lavoro ancora meno e chi aveva una figlia femmina e la coscienza chiusa in fondo allo stomaco, la sfruttava per sfamare tutta la famiglia. È stato quello un periodo doloroso della storia della nostra città, ma non solo, di tutta Italia. La vicenda raccontata nel film di De Sica “La ciociara” (tratto dal romanzo di Moravia), spesso avveniva per scelta. Ragazze, a volte bambine, spinte tra le braccia dei “liberatori”, inglesi e americani, per soldi. Non immaginiamo, non vogliamo nemmeno immaginare quanto dolore abbiano provocato quelle scelte.
Ma parlavamo delle libere professioniste, e sempre nel corso della mia ricerca è venuto fuori un nome, curioso e decisamente poco esotico: Nannina pummarola. Doveva essere una ragazzotta con una qualche caratteristica fisica che richiamava il famoso ortaggio, magari il colore dei capelli. Nannina esercitava nel vicolo dei Barbuti e la finestra della camera da letto affacciava proprio sulla strada. I clienti di Nannina si dividevano in fissi, gli affezionati che avevano trovato tra le braccia della “rossa” l'appagamento necessario delle loro voglie, e quelli occasionali. A fare da controllore delle prestazioni c'era suo padre, che si occupava di mantenere l'ordine nel vicolo e di tenera a bada i clienti. Capitava qualche volta che la donna provasse per qualcuno un particolare trasporto, o simpatia e allora indugiasse trattenendosi più del dovuto. In quel caso, suo padre, passeggiando sotto la finestra intonava un ritornello, il segnale che era ora di sbrigarsi perché c'era chi aspettava di entrare. L'inizio della canzone era: “come è longa a canna mia...”, tanto per sottolineare che la situazione stava andando per le lunghe.
L'unica certezza era che in quegli anni, nella maggior parte dei casi, era facile capire che cosa facessero le persone per vivere. C'era chi faceva il mestiere e lo si sapeva, oggi c'è chi lo fa e...

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