venerdì 6 novembre 2015

La paura di specchiarsi nel diverso. (dal quotidiano la Città)


di Rocco Papa


Nessuna contrapposizione, ma un momento di momentanea disumanità. È questo quello che mi piace pensare di quanto accaduto in questi giorni. Vigili urbani, addirittura una task force anti-bivacco, in campo per sgombrare quei campi improvvisati di senzatetto, o barboni, o clochard, chiamateli come volete. Senza demagogia e buonismi, la maggior parte di noi quando vede questi raggruppamenti di disperati, va giù di lamento: ma il Comune che fa? Che schifo che è diventata questa città e via dicendo. Ora, senza stare a fare differenze tra le varie tipologie di bivacchi e bivaccanti (parola orribile), è chiaro che quello che è accaduto ha scosso più di una coscienza. Togliere le coperte ai senza tetto per farli andare via, mi pare un po' come se a Lampedusa decidessero di non dare acqua ai migranti per farli sviaggiare. Qualche domanda mi nasce, però, a vedere la situazione. Quando si tratta di stranieri, immigrati, si potrà ben gridare tornate al vostro paese, oppure, nel caso la spontanea partenza non avvenga, riportateli al loro paese. Ma se questi non sono clandestini, ma solo barboni, clochard, senzatetto, magari italiani? A questi dove li mandiamo? A quale paese vogliamo farli tornare? Non ho una risposta, forse non ce l'hanno nemmeno le istituzioni e chi predica la tolleranza zero.
Questi signori, che di notte dormono per strada, alla stazione, dove capita, e magari muoiono su una sedia senza che nessuno se ne accorga, sono sì clandestini, ma non di un paese o di una nazione, sono clandestini della vita. Viaggiatori non paganti di una esistenza che forse nemmeno volevano. Si sente spesso dire che il Mondo li ha dimenticati, e per certi versi sarebbe meglio, visto che quando se ne ricorda gli porta via le coperte o qualcos'altro, qualche volta sono stati usati anche come combustibile per alimentare un bel falò. Il Mondo li ha dimenticati, ma non ne sarei così sicuro, potrebbe essere che siano stati loro a dimenticare il mondo. Potrebbe essere che mentre tutti ci riempiamo la bocca con il nostro essere umani, gli unici umani sono loro. Sono rimasti loro ad ancorare questo mondo all'umanità, all'essenziale. C'è chi vorrebbe salvarli, ma non sono così certo che loro vogliano essere salvati, riportati alla realtà, a questa realtà, per la quale se non hai, non sei. Loro non hanno, ma sono eccome. Sono carne, sono ossa, occhi che guardano, che vedono, orecchie che ascoltano. Sono uomini, che un tempo sono stati bambini, proprio come me che scrivo e voi che leggete. Sono stati bambini tra le braccia di madri che per loro speravano chissà che cosa; sono stati bambini che forse avevano paura del buio; che giocavano in un cortile nelle sere d'estate assieme ad altri bambini, che quei marciapiedi non li hanno mai visti. Io lo vedo, quello con la bottiglia avvolta nel giornale, il cappotto strappato, io lo vedo mentre con i calzoni corti tira calci a un pallone; poi è con suo padre, gli tiene la mano e si sente al sicuro, come quando è tra le braccia della sua mamma. Adesso che cosa è che tiene al sicuro, al caldo quelle anime perse, quegli uomini persi?
Sono loro, sono uomini e donne, sono come noi, hanno avuto i nostri stessi pensieri, desideri, valori. Le loro strade camminavano parallele alle nostre, quasi uguali, per lo meno simili, e poi...
E poi, un giorno, tutto cambia. Per alcuni un poco alla volta. Si è partiti con una trascuratezza, si è arrivati alla strada. Per altri magari è accaduto tutto in un giorno, in un'ora. Una vita stravolta da un evento, da un pensiero, da un'ossessione. E allora la strada, le stazioni, quei binari che promettono viaggi, paesi e avventure. Per loro l'avventura è essere vivi il giorno dopo, forse mangiare qualcosa. Il viaggio ce l'hanno solo nella testa, a bordo di un treno che non parte e non è mai partito, ma che ogni notte li fa comunque viaggiare. Un andare e un tornare da quella vita che scorre fuori dal loro guscio, fatto di cartone e coperte donate, ma adesso nemmeno quelle.
Sono queste persone che cacciamo dalle nostre città, che bivaccano, o campeggiano (me lo dà come sinonimo, chissà perché). Sono loro, siamo noi in carne, ossa, sangue e sogni. E ci infastidiscono, ma non è per il decoro o la paura che ci facciano qualcosa, noi abbiamo paura di guardarli, di guardarci. Abbiamo paura di riconoscere che siamo fortunati, che noi la strada non l'abbiamo smarrita. Ma se lo facessimo, se finalmente ammettessimo che, in fondo, non possiamo lamentarci, non avremmo più diritto a piangere, accusare, rimpiangere. E allora niente, la colpa è dei senza tetti, la colpa di tutto. Mia moglie mi lascia, il lavoro è uno schifo, il vicino rompe le balle, ma la colpa è dei senza tetto, sono loro che infastidiscono. Le città hanno le strade rotte o i tombini occlusi e alle prime piogge si allaga tutto; i disoccupati aumentano, i giovani delinquono o, al meglio, la sera si ubriacano; le scuole sono dei cessi; le Poste chiudono...
No, i problemi non sono questi, i problemi sono i senza tetto, e allora che cosa faccio? Ti metto in campo una task force e tolgo loro le coperte.
La dignità di una città e dei suoi abitanti, non si misura sul decoro, ma sull'umanità.

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