lunedì 23 novembre 2015

Quando c'erano le case chiuse e... Nannina pummarola. (Da La Città del 22/11/15)

di Rocco Papa


Salerno città timorata e ipocrita, come tutta l'Italia di quegli anni '50 post guerra, quando il boom economico cominciava far intravedere altri modi di vivere, altre spensieratezze e prendeva a farsi largo l'idea di potersi permettere anche qualcosa di superfluo, oltre al necessario per la sopravvivenza. Di superfluo, a Salerno come nel resto del Paese, c'era di sicuro la voglia di effusioni amorose che sfuggissero alla rigida logica del giaciglio coniugale. I bordelli non erano certo una novità di quegli anni, i casini esistevano già prima, da sempre, a partire dai “lupanari” degli antichi romani. La ricerca di un piacere sessuale mercenario, proibito e diverso, che la morale e l'educazione delle mogli dell'epoca non poteva soddisfare.
Effettuavo una ricerca per scrivere un romanzo ambientato a Salerno alla vigilia della chiusura delle “case chiuse”, la famosa legge Merlin del 1958, e come prima cosa mi son rivolto a qualche anziano nella speranza che potesse darmi delle delucidazioni sui luoghi del piacere in città. A dire il vero, le risposte che ho ottenuto sono state evasive, ma la faccia degli interlocutori la diceva molto lunga, del tipo: so molto bene, ma non voglio dire...
Visto che il progetto di scrivere quel libro è poi naufragato, mi sono rimaste alcune informazioni sulle quali mi è piaciuto ricamarci qualche pensiero. I “casini” ufficiali a Salerno erano in sostanza due, ubicati nel centro storico, a Piantanova una e l'altra nei pressi della Dogana Regia e la chiesa di San Pietro a Corte. Erano soprannominati la Centouno e la Cinquecentouno. Il nome derivava dal prezzo (in Lire) della marchetta, che i clienti pagavano per una “semplice”, che era definita in base al tempo a disposizione e non ad altro. La differenza di prezzo era già di per sé una distinzione di classe, come è facile intuire la prima era frequentata dai meno abbienti: soldati, operai, studenti. Probabilmente il luogo dove molti dei giovani salernitani di quegli anni hanno perso l'innocenza e, forse, anche un po' di sicurezza nelle proprie capacità. La seconda, quella più costosa, più pulita e di certo più discreta, era ad appannaggio di borghesi, commercianti, graduati e professionisti. Nessuno, o quasi, era immune al richiamo della carne, la scelta dipendeva dalla disponibilità economica e non era, a torto o ragione, uno scandalo. Ovviamente anche le donne che esercitavano il mestiere nelle case avevano caratteristiche che variavano a seconda del livello. Più giovani e belle quelle della cinquecentouno, un po' più attempate ed esperte quelle dell'altra.
L'altra via per soddisfare i propri istinti o bisogni, era quella delle “libere professioniste”, tollerate all'epoca come un male necessario. Molte di quelle che non volevano o non avevano trovato impiego nei casini, esercitavano in casa. Durante gli anni della guerra e dell'occupazione, quando la fame era davvero fame, sono stati in tanti a spingere addirittura le proprie figlie sulla strada. Da mangiare non c'era nulla, lavoro ancora meno e chi aveva una figlia femmina e la coscienza chiusa in fondo allo stomaco, la sfruttava per sfamare tutta la famiglia. È stato quello un periodo doloroso della storia della nostra città, ma non solo, di tutta Italia. La vicenda raccontata nel film di De Sica “La ciociara” (tratto dal romanzo di Moravia), spesso avveniva per scelta. Ragazze, a volte bambine, spinte tra le braccia dei “liberatori”, inglesi e americani, per soldi. Non immaginiamo, non vogliamo nemmeno immaginare quanto dolore abbiano provocato quelle scelte.
Ma parlavamo delle libere professioniste, e sempre nel corso della mia ricerca è venuto fuori un nome, curioso e decisamente poco esotico: Nannina pummarola. Doveva essere una ragazzotta con una qualche caratteristica fisica che richiamava il famoso ortaggio, magari il colore dei capelli. Nannina esercitava nel vicolo dei Barbuti e la finestra della camera da letto affacciava proprio sulla strada. I clienti di Nannina si dividevano in fissi, gli affezionati che avevano trovato tra le braccia della “rossa” l'appagamento necessario delle loro voglie, e quelli occasionali. A fare da controllore delle prestazioni c'era suo padre, che si occupava di mantenere l'ordine nel vicolo e di tenera a bada i clienti. Capitava qualche volta che la donna provasse per qualcuno un particolare trasporto, o simpatia e allora indugiasse trattenendosi più del dovuto. In quel caso, suo padre, passeggiando sotto la finestra intonava un ritornello, il segnale che era ora di sbrigarsi perché c'era chi aspettava di entrare. L'inizio della canzone era: “come è longa a canna mia...”, tanto per sottolineare che la situazione stava andando per le lunghe.
L'unica certezza era che in quegli anni, nella maggior parte dei casi, era facile capire che cosa facessero le persone per vivere. C'era chi faceva il mestiere e lo si sapeva, oggi c'è chi lo fa e...

venerdì 13 novembre 2015

Quei sogni spezzati di una gioventù sempre più vecchia. La mia recensione de "Il Bivio", di Angelo Bruscino (Mondadori)


di Rocco Papa



Il Bivio, il libro di Angelo Bruscino, giovane imprenditore irpino impegnato nella cosiddetta "green economy", ci restituisce non un fotografia, ma una radiografia della società italiana rispetto al mondo giovanile, alle sue aspirazioni e ai suoi problemi. Il testo non è un trattato filosofico o una mera analisi della situazione, ma uno spunto di riflessione e un punto di partenza per chi vuole capire dove sta andando il nostro Paese. Ma chi vuole capirlo? È questa la domanda che mi sono posto leggendo il libro. Chi vuole e chi dovrebbe sapere queste cose? Purtroppo chi potrebbe cambiare lo stato delle cose, secondo Bruscino, è proprio il colpevole dell'attuale situazione. In breve, riassumendo la precisa e pragmatica analisi sulla situazione dei giovani studenti italiani che dovrebbero affacciarsi al mondo del lavoro, è una catastrofe. Il problema, che trova ovviamente nel Meridione d'Italia punte di drammaticità apocalittiche, è non solo dovuto alla crisi economica che da anni piega le ginocchia e le speranze delle famiglie, ma soprattutto di mentalità, di concezione della vita. L'Italia è un Paese di vecchi e per vecchi, i giovani, principalmente al Sud, hanno acquisito le suggestioni e il modo di pensare degli anziani, dei genitori, dei conoscenti. I bisogni primari, la sopravvivenza, tipici dell'età adulta, hanno annebbiato anche la visione dei giovani. In sostanza, i ragazzi italiani non sognano più. I sogni, le aspirazioni, sono troncate e smorzate da fattori che influenzano l'intera vita ella nazione. Tra i principali colpevoli individuati da Bruscino, volendo stilare una classifica, troviamo al primo posto, e non poteva essere altrimenti, la politica e i politici. Una politica vecchia e fatta da vecchi, che mai potrà capire e andare incontro alle esigenze delle nuove generazioni. Una politica che non ascolta ed è poco attenta alle istanze represse delle nuove generazioni. Una politica, declinata in burocrazia, che frappone ostacoli spesso insormontabili laddove un sogno, una visione comincia a palesarsi. Le idee muoiono tra le carte di permessi, autorizzazioni, marchette e mance. Ma l'indice è puntato anche contro i pochissimi investimenti che lo Stato dispone per la ricerca e la scuola, punti nevralgici per lo sviluppo di un Paese.
Al secondo posto ci sono le banche, il mondo della finanza, poco disposte a finanziare le idee. L'idea è un rischio, e le banche, si sa, rischi non ne assumono. Prestano solo a chi già ha, e intanto il Paese arretra ripiegandosi su se stesso.
In classifica ci sono anche i mass media, rei, secondo l'autore, di diffondere solo brutte notizie che deprimono e scoraggiano i giovani.
Non poteva mancare la scuola e l'università, e l'assoluta inadeguatezza degli insegnamenti impartiti rispetto al mondo reale. Una scuola ancora troppo nozionistica e che prepara poco al lavoro. In un mondo ultra competitivo, dove la carenza di lavoro è drammatica, la preparazione può rappresentare davvero l'unica ancora di salvezza, ma anche in questo il nostro Paese pecca.
Mentre andando avanti nell'analisi, si scopre che per la maggior parte dei ragazzi meridionali la carriera militare rappresenta ancora un obiettivo concreto, con la certezza di uno stipendio fisso, seguita dalla carriera sportiva e da quella artistica, si arriva al famoso Bivio dal quale è tratto il titolo del libro. In realtà i bivi sono tanti, a partire dalla scelta sul proseguimento degli studi, fino ad arrivare a quella dell'emigrazione. Già, proprio l'emigrazione, quella che è chiamata "la fuga dei cervelli". Le migliori energie del nostro Paese lasciano l'Italia e vanno ad arricchire i nostri competitor europei, ma non solo. Perché? La risposta è ovvia: l'Italia è un Paese di e per vecchi. Nelle altre nazioni, Germania in testa, si punta e si investe nelle idee, nei giovani, e le opportunità di lavoro, ai vari livelli, sono molte di più. Il libro si conclude con viatico di speranza per quei giovani preparati e intraprendenti che intendono investire il loro futuro in Italia, diventando imprenditori. Gli esempi riportati sono di alto profilo, ma alla base di tutto c'è sempre un'idea e, soprattutto, la preparazione e la volontà di realizzarla. A chi consiglierei questo libro? Innanzitutto ai nostri politici e a chi dirige il nostro Paese, ma sarebbe tempo sprecato, perché è un dato di fatto che loro non leggono.

mercoledì 11 novembre 2015

I prigionieri della metro metafora della città ostile (da La Città del 6/11/2015)


di Rocco Papa

Salerno, ore 7,10, i cancelli della stazione Duomo-Via Vernieri e quelli dell'adiacente sottopasso ferroviario sono ancora chiusi. Decine di pendolari, appena scesi dai treni che da Napoli, Nocera, Cava arrivano in città, sono prigionieri, senza via di fuga. Si sono svegliati all'alba per arrivare in tempo a lavoro, e invece... Fermi, impotenti, in attesa che chi di dovere, in questo caso i vigili urbani, si ricordino di questa incombenza. Non è la prima volta, mi ha detto uno di quei viaggiatori seriali, è già capitato. Sarà stato certamente un disguido, un malinteso, mi sono detto tornando a casa. L'episodio è stato lo spunto per riflettere sul concetto di città, di comunità, che non riguarda solo Salerno, ovviamente, ma un po' tutte. La città, che con le sue mura ha da sempre rappresentato un baluardo, un rifugio sicuro per i suoi cittadini, oggi è diventata un nemico, un mostro da affrontare. Da quelle mura si vorrebbe scappare, invece di chiudersi dentro come si farebbe in casa propria. Quando si esce di casa per una passeggiata, per andare a lavoro, ci si prepara come se si andasse in guerra. La città è diventata una rocca inespugnabile, ma non per gli aggressori, lo è per i suoi stessi cittadini. Opprime e deprime le anime stesse che da sempre è deputata a difendere, accogliere. Dovrebbe essere più simile a una coperta, che avvolge, riscalda e protegge i suoi abitanti, ma non lo è! La città, come un'entità a se stante, cresce e si arrovella sulle sue stesse fondamenta, dimenticando ciò che contiene. Cresce nelle sue strutture, troppo spesso per specchiarsi, per un fine che non è il benessere di chi poi dovrà usufruirne. Lo scopo di determinate azioni non è più finalizzato alla felicità dell'uomo, ma sottomesso ad altre logiche. Ho sempre più la sensazione che le nostre città siano diventate un po' come quelle ragazze o quei ragazzi civettuoli, per i quali conta solo apparire, dimenticando l'essere, dimenticando di essere qualcosa, qualcuno che non nasce in quell'istante, ma che è il frutto di un processo durato secoli. Immagino la città, e certamente non sono il primo, come un organismo vivente e noi, piccoli, a volte insignificanti, siamo la linfa che la rende vitale. In un corpo umano il sangue è vitale, il sangue trasporta ossigeno, serve l'organismo, ma è anche vero il contrario, l'organismo serve e protegge il sangue. Anche il sangue si può ammalare, spesso questa malattia si chiama leucemia, ed è mortale. Noi siamo il frutto, il sangue ammalato di queste città inaridite che si ripiegano sempre più su loro stesse, ignorando la malattia, ignorando che senza quella linfa vitale che sono i cittadini, le città non esisterebbero. Non esisterebbero sindaci, assessori e impiegati comunali. Ci vuole, ci vorrebbe una cura. Tanto per scavare nel baule delle banalità, che poi saranno anche banalità, ma spesso dicono la verità, mi verrebbe da pensare che basterebbe poco per migliorare la situazione. Basterebbe, per dire, che chi è deputato a tenere in ordine la città facesse il suo dovere. Ieri mattina, ad esempio, sarebbe bastato che il vigile incaricato di aprire i cancelli della stazione avesse fatto il suo dovere, e decine di pendolari avrebbero cominciato la giornata con un sorriso e non con una imprecazione. Quel sorriso si sarebbe trasmesso sul lavoro e su tutto il resto. Basterebbe questo, per iniziare. Sarà pure una banalità, ma le banalità spesso dicono al verità. Se dico che è meglio una bella giornata di sole, che una con la pioggia, sono banale, ma è vero. Se dico che chi pensa a grandi opere, stravolgimenti, eventi e sconvolgimenti, dovrebbe prima pensare a qual è il bene, il bisogno primario dei cittadini, e così sarebbe una persona più apprezzata, dico un'altra banalità, ma chissà perché è tanto difficile da realizzare. La città non è un'utopia, non è, per dirla alla Calvino, invisibile, ma è tangibile e viva, almeno quanto lo siamo noi che l'abitiamo. Le nostre scelte quotidiane condizionano lo stato di salute della nostra città; l'amore, l'accoglienza, lo sforzo che ci mettiamo nel rendere noi stessi migliori, si riversa sulla nostra città. La città europea, ma direi semplicemente la città, non è quella più bella, più pulita, più asettica, ma quella che rende felici i suoi cittadini, quella che accoglie e li sa amare. Qua c'è ancora tanta strada da fare.

venerdì 6 novembre 2015

La paura di specchiarsi nel diverso. (dal quotidiano la Città)


di Rocco Papa


Nessuna contrapposizione, ma un momento di momentanea disumanità. È questo quello che mi piace pensare di quanto accaduto in questi giorni. Vigili urbani, addirittura una task force anti-bivacco, in campo per sgombrare quei campi improvvisati di senzatetto, o barboni, o clochard, chiamateli come volete. Senza demagogia e buonismi, la maggior parte di noi quando vede questi raggruppamenti di disperati, va giù di lamento: ma il Comune che fa? Che schifo che è diventata questa città e via dicendo. Ora, senza stare a fare differenze tra le varie tipologie di bivacchi e bivaccanti (parola orribile), è chiaro che quello che è accaduto ha scosso più di una coscienza. Togliere le coperte ai senza tetto per farli andare via, mi pare un po' come se a Lampedusa decidessero di non dare acqua ai migranti per farli sviaggiare. Qualche domanda mi nasce, però, a vedere la situazione. Quando si tratta di stranieri, immigrati, si potrà ben gridare tornate al vostro paese, oppure, nel caso la spontanea partenza non avvenga, riportateli al loro paese. Ma se questi non sono clandestini, ma solo barboni, clochard, senzatetto, magari italiani? A questi dove li mandiamo? A quale paese vogliamo farli tornare? Non ho una risposta, forse non ce l'hanno nemmeno le istituzioni e chi predica la tolleranza zero.
Questi signori, che di notte dormono per strada, alla stazione, dove capita, e magari muoiono su una sedia senza che nessuno se ne accorga, sono sì clandestini, ma non di un paese o di una nazione, sono clandestini della vita. Viaggiatori non paganti di una esistenza che forse nemmeno volevano. Si sente spesso dire che il Mondo li ha dimenticati, e per certi versi sarebbe meglio, visto che quando se ne ricorda gli porta via le coperte o qualcos'altro, qualche volta sono stati usati anche come combustibile per alimentare un bel falò. Il Mondo li ha dimenticati, ma non ne sarei così sicuro, potrebbe essere che siano stati loro a dimenticare il mondo. Potrebbe essere che mentre tutti ci riempiamo la bocca con il nostro essere umani, gli unici umani sono loro. Sono rimasti loro ad ancorare questo mondo all'umanità, all'essenziale. C'è chi vorrebbe salvarli, ma non sono così certo che loro vogliano essere salvati, riportati alla realtà, a questa realtà, per la quale se non hai, non sei. Loro non hanno, ma sono eccome. Sono carne, sono ossa, occhi che guardano, che vedono, orecchie che ascoltano. Sono uomini, che un tempo sono stati bambini, proprio come me che scrivo e voi che leggete. Sono stati bambini tra le braccia di madri che per loro speravano chissà che cosa; sono stati bambini che forse avevano paura del buio; che giocavano in un cortile nelle sere d'estate assieme ad altri bambini, che quei marciapiedi non li hanno mai visti. Io lo vedo, quello con la bottiglia avvolta nel giornale, il cappotto strappato, io lo vedo mentre con i calzoni corti tira calci a un pallone; poi è con suo padre, gli tiene la mano e si sente al sicuro, come quando è tra le braccia della sua mamma. Adesso che cosa è che tiene al sicuro, al caldo quelle anime perse, quegli uomini persi?
Sono loro, sono uomini e donne, sono come noi, hanno avuto i nostri stessi pensieri, desideri, valori. Le loro strade camminavano parallele alle nostre, quasi uguali, per lo meno simili, e poi...
E poi, un giorno, tutto cambia. Per alcuni un poco alla volta. Si è partiti con una trascuratezza, si è arrivati alla strada. Per altri magari è accaduto tutto in un giorno, in un'ora. Una vita stravolta da un evento, da un pensiero, da un'ossessione. E allora la strada, le stazioni, quei binari che promettono viaggi, paesi e avventure. Per loro l'avventura è essere vivi il giorno dopo, forse mangiare qualcosa. Il viaggio ce l'hanno solo nella testa, a bordo di un treno che non parte e non è mai partito, ma che ogni notte li fa comunque viaggiare. Un andare e un tornare da quella vita che scorre fuori dal loro guscio, fatto di cartone e coperte donate, ma adesso nemmeno quelle.
Sono queste persone che cacciamo dalle nostre città, che bivaccano, o campeggiano (me lo dà come sinonimo, chissà perché). Sono loro, siamo noi in carne, ossa, sangue e sogni. E ci infastidiscono, ma non è per il decoro o la paura che ci facciano qualcosa, noi abbiamo paura di guardarli, di guardarci. Abbiamo paura di riconoscere che siamo fortunati, che noi la strada non l'abbiamo smarrita. Ma se lo facessimo, se finalmente ammettessimo che, in fondo, non possiamo lamentarci, non avremmo più diritto a piangere, accusare, rimpiangere. E allora niente, la colpa è dei senza tetti, la colpa di tutto. Mia moglie mi lascia, il lavoro è uno schifo, il vicino rompe le balle, ma la colpa è dei senza tetto, sono loro che infastidiscono. Le città hanno le strade rotte o i tombini occlusi e alle prime piogge si allaga tutto; i disoccupati aumentano, i giovani delinquono o, al meglio, la sera si ubriacano; le scuole sono dei cessi; le Poste chiudono...
No, i problemi non sono questi, i problemi sono i senza tetto, e allora che cosa faccio? Ti metto in campo una task force e tolgo loro le coperte.
La dignità di una città e dei suoi abitanti, non si misura sul decoro, ma sull'umanità.

Dal quotidiano La Città. La riscoperta filosofica dell'acqua


di Rocco Papa

Quando veniamo al mondo il nostro corpo è composto per il 75% di acqua, tale percentuale cala fino al 60 nell'età adulta. Potremmo affermare che siamo nati per vivere in acqua, annotazione che un po' richiama il titolo di una canzone di Baglioni, Acqua nell'acqua, scritta in occasione dei Mondiali di Nuoto a Roma del 1994. Questo, però, non vuole essere un articolo sull'importanza di un bene così primario ed essenziale per la nostra esistenza, ma più mestamente il resoconto di una scoperta che ha cambiato il mio modo di vedere e vivere lo sport.
In una famiglia di pallonari, avere un figlio che si intestardisce per il nuoto, all'inizio è stato un po' uno sbandamento. A dire il vero è stata mia moglie a spingerlo e spronarlo verso il nuoto. “Fa bene” è la solita frase che si usa, ma io, a vederlo fare avanti e indietro: stile, rana, dorso, farfalla, non ci trovavo proprio niente di divertente. E, per un bambino, lo sport deve essere anche divertimento. Un bel giorno, quella gloriosa società di nuoto che è la Rari Nantes Salerno, più giovane solo dell'amata Salernitana in quanto a età, ci fece sapere che nostro figlio era stato selezionato per la Pallanuoto. Sempre nuoto era, ma almeno c'era una palla da spingere in una porta, e già mi parve un compromesso accettabile. Lo scetticismo durò. Lo vedevo allenarsi assieme a un'altra decina di “pulcini”, vasca su vasca, solo gambe, solo braccia. Cominciai a chiedermi come facesse, io solo a guardarlo avevo il fiatone. Poi ci fu la prima partita e tutto cambiò.
Non sono mai stato uno di quei padri per i quali il figlio è sempre il migliore e sono gli altri a sbagliare, anzi, sono sempre stato più che critico, ma vederlo in acqua, lui insieme ai compagni, giocare, nuotare, è stata una sensazione unica, indescrivibile. Schizzi d'acqua in faccia, mani a trattenerti, spingere, scalciare, lottare, vincere un minuto e perdere quello dopo e alla fine sempre il sorriso sulle labbra, a bordo vasca, a stringere la mano agli avversari.
La pallanuoto è fatica, è sudore, anche se non si vede, perché proprio com'è per i nostri corpi, è solo acqua e sale che si scioglie in altra acqua. La Pallanuoto è sacrificio e passione. Non ci sono prospettive, che a volte sono molto più dei genitori che dei ragazzi, di stadi pieni, stipendi da favola. L'unica prospettiva è lo sport, il divertimento e la salute. Perché alla fine è vero, lo sport fa bene, il noto anche di più.
E lo spettacolo è anche quello che non si vede, quello che accade sotto il pelo dell'acqua delle piscine piastrellate di un blu artificiale: la lotta contro gli avversari, la lotta contro un ambiente che, in fondo, non è quello naturale per l'uomo, anche se siamo fatti di acqua. È ciò che passa nella testa di ogni ragazzino quando ha il pallone tra le mani e non basta calciarlo via, perché deve sforzarsi di restare a galla, guardare i compagni, difendersi fisicamente dall'avversario, respirare e non lasciarsi sfuggire la palla viscida, insidiosa. È uno sport per tutti, ma non tutti possono praticarlo. Ci vuole voglia, passione, sacrificio e valori. Aiuta a crescere, a contare sui compagni, a difendersi, che oggi non è poco, e a non esaltarsi nella vittoria, e a non deprimersi nella sconfitta, perché in fondo è un gioco, e lo sarà anche se arrivi in serie B, in serie A. Non ci saranno mai gli ottantamila a inneggiare il tuo nome, ma ci sarai sempre tu e l'acqua, una sfida continua, una sfida nella sfida, perché è quella la prima da vincere, poi ci sono gli avversari.
E ci vuole passione per nuotare, forza, vigore, concentrazione, e lo stesso vale anche per chi tiene in piedi la baracca. La nostra città, purtroppo, non è fatta per chi vuole fare sport. Strutture fatiscenti o inadeguate, gestite così e così. Lo sa chi fa calcio, lo sa chi fa basket o pallavolo, lo sa ancora di più chi fa nuoto o pallanuoto. Anche perché gestire una piscina è un filino più complicato che tenere un paio di campetti o una palestra. Le istituzioni, ma non è una novità, hanno altro a cui pensare e allora ci si arrangia con ciò che si ha, facendo di necessità virtù e di virtù passione. Solo una smisurata passione può spingere qualcuno a mettere su una struttura, una squadra di nuoto o pallanuoto. Battersi contro difficoltà oggettive e non mollare tutto.
Un aspetto da non sottovalutare, è che difficilmente i ragazzini che sono in acqua si accorgono o sentono le grida sguaiate dei genitori. Non ci sono reti attaccate al campetto sulle quali aggrapparsi e inveire contro arbitro e avversari, non ci sono padri convinti di tenere in casa i nuovi Messi e Ronaldo. C'è passione, comunque, animazione, tifo, qualche parola grossa vola lo stesso, ma là, nell'acqua, quei ragazzi sono solo una squadra, estranei a tutto, immersi in una logica che da fuori, all'asciutto, non si può capire.

Eppure, lo so che non c'entra niente, Salerno è una città di mare e che del mare ha vissuto e vive. I nostri figli sono nati con il sale sulla pelle e con l'odore dell'acqua che sarebbe dovuto essere come quello di casa. Non è così, lo so, non c'entra nulla con le strutture, le piscine, quelle sono cose di uomini, di politici, di buon senso. Non c'entra nulla, ma non si può vivere solo di pallone.