di Rocco Papa
Salerno, ore 7,10, i cancelli della stazione Duomo-Via
Vernieri e quelli dell'adiacente sottopasso ferroviario sono ancora chiusi.
Decine di pendolari, appena scesi dai treni che da Napoli, Nocera, Cava
arrivano in città, sono prigionieri, senza via di fuga. Si sono svegliati
all'alba per arrivare in tempo a lavoro, e invece... Fermi, impotenti, in
attesa che chi di dovere, in questo caso i vigili urbani, si ricordino di
questa incombenza. Non è la prima volta, mi ha detto uno di quei viaggiatori
seriali, è già capitato. Sarà stato certamente un disguido, un malinteso, mi
sono detto tornando a casa. L'episodio è stato lo spunto per riflettere sul
concetto di città, di comunità, che non riguarda solo Salerno, ovviamente, ma
un po' tutte. La città, che con le sue mura ha da sempre rappresentato un
baluardo, un rifugio sicuro per i suoi cittadini, oggi è diventata un nemico,
un mostro da affrontare. Da quelle mura si vorrebbe scappare, invece di
chiudersi dentro come si farebbe in casa propria. Quando si esce di casa per
una passeggiata, per andare a lavoro, ci si prepara come se si andasse in
guerra. La città è diventata una rocca inespugnabile, ma non per gli
aggressori, lo è per i suoi stessi cittadini. Opprime e deprime le anime stesse
che da sempre è deputata a difendere, accogliere. Dovrebbe essere più simile a
una coperta, che avvolge, riscalda e protegge i suoi abitanti, ma non lo è! La
città, come un'entità a se stante, cresce e si arrovella sulle sue stesse
fondamenta, dimenticando ciò che contiene. Cresce nelle sue strutture, troppo
spesso per specchiarsi, per un fine che non è il benessere di chi poi dovrà
usufruirne. Lo scopo di determinate azioni non è più finalizzato alla felicità
dell'uomo, ma sottomesso ad altre logiche. Ho sempre più la sensazione che le
nostre città siano diventate un po' come quelle ragazze o quei ragazzi
civettuoli, per i quali conta solo apparire, dimenticando l'essere,
dimenticando di essere qualcosa, qualcuno che non nasce in quell'istante, ma
che è il frutto di un processo durato secoli. Immagino la città, e certamente
non sono il primo, come un organismo vivente e noi, piccoli, a volte
insignificanti, siamo la linfa che la rende vitale. In un corpo umano il sangue
è vitale, il sangue trasporta ossigeno, serve l'organismo, ma è anche vero il
contrario, l'organismo serve e protegge il sangue. Anche il sangue si può
ammalare, spesso questa malattia si chiama leucemia, ed è mortale. Noi siamo il
frutto, il sangue ammalato di queste città inaridite che si ripiegano sempre
più su loro stesse, ignorando la malattia, ignorando che senza quella linfa
vitale che sono i cittadini, le città non esisterebbero. Non esisterebbero
sindaci, assessori e impiegati comunali. Ci vuole, ci vorrebbe una cura. Tanto
per scavare nel baule delle banalità, che poi saranno anche banalità, ma spesso
dicono la verità, mi verrebbe da pensare che basterebbe poco per migliorare la
situazione. Basterebbe, per dire, che chi è deputato a tenere in ordine la
città facesse il suo dovere. Ieri mattina, ad esempio, sarebbe bastato che il
vigile incaricato di aprire i cancelli della stazione avesse fatto il suo
dovere, e decine di pendolari avrebbero cominciato la giornata con un sorriso e
non con una imprecazione. Quel sorriso si sarebbe trasmesso sul lavoro e su
tutto il resto. Basterebbe questo, per iniziare. Sarà pure una banalità, ma le
banalità spesso dicono al verità. Se dico che è meglio una bella giornata di
sole, che una con la pioggia, sono banale, ma è vero. Se dico che chi pensa a
grandi opere, stravolgimenti, eventi e sconvolgimenti, dovrebbe prima pensare a
qual è il bene, il bisogno primario dei cittadini, e così sarebbe una persona
più apprezzata, dico un'altra banalità, ma chissà perché è tanto difficile da
realizzare. La città non è un'utopia, non è, per dirla alla Calvino,
invisibile, ma è tangibile e viva, almeno quanto lo siamo noi che l'abitiamo.
Le nostre scelte quotidiane condizionano lo stato di salute della nostra città;
l'amore, l'accoglienza, lo sforzo che ci mettiamo nel rendere noi stessi
migliori, si riversa sulla nostra città. La città europea, ma direi
semplicemente la città, non è quella più bella, più pulita, più asettica, ma
quella che rende felici i suoi cittadini, quella che accoglie e li sa amare.
Qua c'è ancora tanta strada da fare.
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