mercoledì 11 novembre 2015

I prigionieri della metro metafora della città ostile (da La Città del 6/11/2015)


di Rocco Papa

Salerno, ore 7,10, i cancelli della stazione Duomo-Via Vernieri e quelli dell'adiacente sottopasso ferroviario sono ancora chiusi. Decine di pendolari, appena scesi dai treni che da Napoli, Nocera, Cava arrivano in città, sono prigionieri, senza via di fuga. Si sono svegliati all'alba per arrivare in tempo a lavoro, e invece... Fermi, impotenti, in attesa che chi di dovere, in questo caso i vigili urbani, si ricordino di questa incombenza. Non è la prima volta, mi ha detto uno di quei viaggiatori seriali, è già capitato. Sarà stato certamente un disguido, un malinteso, mi sono detto tornando a casa. L'episodio è stato lo spunto per riflettere sul concetto di città, di comunità, che non riguarda solo Salerno, ovviamente, ma un po' tutte. La città, che con le sue mura ha da sempre rappresentato un baluardo, un rifugio sicuro per i suoi cittadini, oggi è diventata un nemico, un mostro da affrontare. Da quelle mura si vorrebbe scappare, invece di chiudersi dentro come si farebbe in casa propria. Quando si esce di casa per una passeggiata, per andare a lavoro, ci si prepara come se si andasse in guerra. La città è diventata una rocca inespugnabile, ma non per gli aggressori, lo è per i suoi stessi cittadini. Opprime e deprime le anime stesse che da sempre è deputata a difendere, accogliere. Dovrebbe essere più simile a una coperta, che avvolge, riscalda e protegge i suoi abitanti, ma non lo è! La città, come un'entità a se stante, cresce e si arrovella sulle sue stesse fondamenta, dimenticando ciò che contiene. Cresce nelle sue strutture, troppo spesso per specchiarsi, per un fine che non è il benessere di chi poi dovrà usufruirne. Lo scopo di determinate azioni non è più finalizzato alla felicità dell'uomo, ma sottomesso ad altre logiche. Ho sempre più la sensazione che le nostre città siano diventate un po' come quelle ragazze o quei ragazzi civettuoli, per i quali conta solo apparire, dimenticando l'essere, dimenticando di essere qualcosa, qualcuno che non nasce in quell'istante, ma che è il frutto di un processo durato secoli. Immagino la città, e certamente non sono il primo, come un organismo vivente e noi, piccoli, a volte insignificanti, siamo la linfa che la rende vitale. In un corpo umano il sangue è vitale, il sangue trasporta ossigeno, serve l'organismo, ma è anche vero il contrario, l'organismo serve e protegge il sangue. Anche il sangue si può ammalare, spesso questa malattia si chiama leucemia, ed è mortale. Noi siamo il frutto, il sangue ammalato di queste città inaridite che si ripiegano sempre più su loro stesse, ignorando la malattia, ignorando che senza quella linfa vitale che sono i cittadini, le città non esisterebbero. Non esisterebbero sindaci, assessori e impiegati comunali. Ci vuole, ci vorrebbe una cura. Tanto per scavare nel baule delle banalità, che poi saranno anche banalità, ma spesso dicono la verità, mi verrebbe da pensare che basterebbe poco per migliorare la situazione. Basterebbe, per dire, che chi è deputato a tenere in ordine la città facesse il suo dovere. Ieri mattina, ad esempio, sarebbe bastato che il vigile incaricato di aprire i cancelli della stazione avesse fatto il suo dovere, e decine di pendolari avrebbero cominciato la giornata con un sorriso e non con una imprecazione. Quel sorriso si sarebbe trasmesso sul lavoro e su tutto il resto. Basterebbe questo, per iniziare. Sarà pure una banalità, ma le banalità spesso dicono al verità. Se dico che è meglio una bella giornata di sole, che una con la pioggia, sono banale, ma è vero. Se dico che chi pensa a grandi opere, stravolgimenti, eventi e sconvolgimenti, dovrebbe prima pensare a qual è il bene, il bisogno primario dei cittadini, e così sarebbe una persona più apprezzata, dico un'altra banalità, ma chissà perché è tanto difficile da realizzare. La città non è un'utopia, non è, per dirla alla Calvino, invisibile, ma è tangibile e viva, almeno quanto lo siamo noi che l'abitiamo. Le nostre scelte quotidiane condizionano lo stato di salute della nostra città; l'amore, l'accoglienza, lo sforzo che ci mettiamo nel rendere noi stessi migliori, si riversa sulla nostra città. La città europea, ma direi semplicemente la città, non è quella più bella, più pulita, più asettica, ma quella che rende felici i suoi cittadini, quella che accoglie e li sa amare. Qua c'è ancora tanta strada da fare.

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