mercoledì 2 novembre 2016

Al libro "I giorni del male", il Marchio Microeditoria di Qualità

E poi ci sono giornate nel corso delle quali succedono cose inaspettate. Tra gli amici qualcuno ricorda il mio libro "I giorni del male"? Ebbene oggi mi hanno comunicato che ha ottenuto il "Marchio Microeditoria di Qualità". Sabato a Chiari, in provincia di Brescia, sarà proclamato il vincitore assoluto. Sebbene i premi non mi piacciono (a questo ha partecipato l'editore Cicorivolta senza che io ne sapessi nulla), questo mi sembra un riconoscimento serio per le modalità di votazione (se volete trovate tutto su http://www.microeditoria.it). Di fatto il mio libro ha diritto perfino a una fascetta ;-) peccato che in libreria non se ne trovino, ma è sempre possibile ordinarlo che vi viene voglia di curiosare tra le mie pagine...

lunedì 24 ottobre 2016

Operazione Perseo a € 1,99

278 pagine, 5-6 ore di lettura, 78mila parole. I dati di Operazione Perseo secondo lo store Kobo. Da oggi a € 1,99. Magari ne vale la pena.

https://store.kobobooks.com/it-it/ebook/operazione-perseo

mercoledì 12 ottobre 2016

Barliario, il mago che visse per sempre. (da La Città del 9/10/2016)

di Rocco Papa

(illustrazione di Licio Esposito)

Erano trascorsi due giorni e tre notti da quando era accaduto il fatto. Erano morti per una sua dimenticanza, perché era sicuro che mai avrebbero messo piede nel suo laboratorio, mai avrebbero armeggiato con le sue pozioni, e invece...
Due bambini che non avrebbero mai più conosciuto il mondo e le sue meraviglie, i suoi segreti, quelli che lui sarebbe stato disposto a rivelargli, da maestro e da padre.
All'alba del terzo giorno, finalmente, il sole violentò la coltre di nubi e la lunga notte nella quale era piombata la città. Il terzo giorno, lo stesso della resurrezione di Cristo, un timido spiraglio divenne uno squarcio nel silenzio e la luce tornò a illuminare la vita della città.
Barliario, mago, stregone, alchimista, senza Dio, sodale di Lucifero, blasfemo e apostata, era in ginocchio, immobile. Nella mano destra reggeva una pietra e con le poche forze che gli restavano la batteva sempre più debolmente sul petto, dal quale sgorgava un sottile rivolo di sangue.
L'alba penetrò nella chiesa come un messaggero, fili di luce dai colori resi cangianti dalla policromia delle vetrate, dissolsero le ombre, ricacciandole nell'abisso. In quei tre giorni, nessun chierico aveva avuto il coraggio di avvicinarsi a quell'uomo, nemmeno il vescovo, che informato del fatto, aveva ordinato di lasciarlo stare.
Barliario, uomo forte e di bell'aspetto, sempre vestito delle migliori stoffe in vendita alla drapperia e cucite dai sarti più bravi, in quei tre giorni si era tramutato in un vecchio canuto e debole che chiedeva perdono a Dio e al mondo sussurrando parole di pentimento. Sempre uguali, sempre le stesse, come una nenia insistente.
Un raggio di luce attraversò piano il pavimento, risalì lungo le mura della chiesa di San Benedetto, fino a raggiungere la faccia del Cristo Crocifisso dipinto sopra l'altare.
"Perdona o Cristo la mia colpa. Perdona la mia vanagloria; Perdona l'uomo che voleva ridurre l'immenso in vile materia. Perdona o Cristo la mia colpa, fa che io possa raggiungerli presto e finché non sarà il momento, la mia vita dedicherò a Te e solo a Te. E così sia!"
Dieci, cento, mille volte in quei tre giorni aveva recitato quella preghiera. Quell'atto di pentimento era riecheggiato incessantemente tra le mura di San Benedetto. Parole che restavano a mezz'aria tra la terra e il cielo, in attesa dell'ultimo atto dello spirito per giungere all'orecchio dell'Onnipotente. Intanto il corpo di Barliario si deperiva, la sua voce diventava sempre più flebile e nei suoi occhi non c'erano più lacrime da versare.
Come insegna la Scrittura: bussate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato. Se non vi apriranno per il piacere di farlo, lo faranno per la vostra insistenza. E così anche quel Cristo, che legge nel cuore di ognuno, a quell'insistenza, all'alba del terzo giorno, risuscitò dal legno nel quale era stato dipinto, aprì gli occhi e fece segno di sì con la testa.
Il cuore di Barliario scoppiò di gioia, il Redentore aveva ascoltato la sua preghiera e il suo lamento, e lo aveva perdonato. Con le ginocchia dolenti e senza forze, si mise in piedi, e quel giorno stesso entrò nel monastero di San Benedetto, per dedicare la sua vita a Dio che lo aveva perdonato da quel terribile crimine.
Il ragazzo guardò perplesso il vecchio monaco. Sembrava così piccolo sotto il peso degli anni, ma la voce era limpida come quella di un giovane.
- E finisce così? - domandò
- No - rispose il vecchio fissandolo -. Dio non sempre accontenta in tutte le loro richieste i penitenti, e così rimandò il giorno del ricongiungimento di Barliario con i suoi cari, ancora per molti anni. Del miracolo del Crocifisso di legno che aveva aperto gli occhi, qualche chierico chiacchierone, contravvenendo alle indicazioni del vescovo, ne parlò in giro, e in città cominciarono a darsi convegno pellegrini, penitenti, e una schiera di artigiani e commercianti, che diedero vita a quella che oggi ancora chiamiamo la Fiera del Crocifisso.
- Ma Barliario morì? - chiese il ragazzo.
- Di lui non si seppe più nulla - rispose il vecchio -. Qualcuno pensa che la sua penitenza continui ancora, e la sua punizione sia quella di non potersi ricongiungere con i suoi figli nell'aldilà, fino alla fine del Mondo.
Il ragazzo era ancora più perplesso, convinto che quell'anziano monaco gli avesse raccontato un sacco di bugie, solo per il gusto di trascorrere un po' di tempo in compagnia.
- Adesso devo andare, mi aspettano di sotto.
Il monaco non si mosse e non lo salutò neppure. Lui scese di corsa le scale fino all'atrio dell'antico convento, dove uno dei professori lo aspettava.
- Ma dove sei stato, lo sai che il pullman aspetta solo te?
- Sono rimasto a parlare con un vecchio monaco, mi ha raccontato la storia del mago Pietro Barliario.
Il professore lo guardò con aria stupita.
- Inventane un'altra di scusa, in questo monastero, che oggi è solo un'attrazione per turisti, l'ultimo monaco ci ha vissuto più di cento anni fa.


lunedì 19 settembre 2016

Il racconto: "In fondo alle scale".

Il racconto giallo pubblicato questa estate su La Città, ispirato a una storia vera.

Hanno cenato in un ristorante vicino al porticciolo. Dario le ha detto che voleva festeggiare la conclusione di un affare importante. È il trentuno di luglio, ha piovuto nel pomeriggio, e adesso l'aria è appiccicosa e umida, carica di sale e polvere rossa spinta dal vento d'Africa. Le luci si riflettono nello specchio d'acqua calmo, vibrano come un sogno.
Hanno affittato una casa per tutta l'estate, ma ci vive solo lei. Lui va e viene, si ferma al massimo per una notte. Deve lavorare, e poi c'è sua moglie e i tre figli, non può fare di più. Non può stare con lei, non ancora, ma le ha promesso che presto le cose cambieranno. Non lo ha detto chiaramente, ma glielo ha fatto capire. In fondo non c'è motivo di affrettare le cose, si conoscono da meno di un anno. Teresa gli crede. Tutti gli credono. Dario agisce sempre come se il mondo gli appartenesse, come se tutto gli fosse dovuto. Teresa non sa nemmeno che cosa l'ha colpita di lui. È più grande di lei di venti anni, non è un bell'uomo e non l'ha neppure corteggiata. È piccolo, magro, ma riesce a intimorire chiunque. Ha qualcosa dentro, una forza che ipnotizza, intimorisce, e con quella forza l'ha persuasa a dire di sì.
- Aspettami qua, vado a comprare le sigarette - le dice quando escono dal ristorante.
Lei fa segno di sì con la testa. Sono alla base dei centoventi gradini che portano alla casa. È tutto così quel paesino: scale, vicoli, piazzette e slarghi che si affacciano sul mare color cobalto. Il vento caldo le muove i capelli. Si lecca le labbra che sanno di sale. È venuta fuori anche la luna, si è fatta largo tra le nubi e fa scintillare il tratto di mare davanti alla spiaggia grande.
Due fidanzati, di fronte a lei, si scambiano l'ultimo bacio prima lasciarsi per la notte. Una nuvola oscura la luna e tutto diventa buio per un momento.
- Ciao, bambola - dice affettuosamente il fidanzato alla ragazza prima di andare via.
Teresa ha un sussulto e sente un brivido di paura percorrerle la schiena. È stata quella frase: ciao bambola. La mente la risucchia in un'altra vita, anni prima. Sono solo schegge nella memoria, i flash di un dolore ancora vivo.
Ci sono tre che la guardano. Lei distoglie lo sguardo, fa finta di niente. Loro si avvicinano, uno le dice: ciao, bambola, che ci fai qua tutta sola?
Lei non risponde e cerca di allontanarsi, ma un altro le si para davanti e la blocca, l'afferra per la mano e la trascina in un vicolo. Da quel momento la sua mente smette di registrare immagini, ma percepisce solo il dolore, la paura e l'odore di quegli uomini. Le strappano i vestiti, vorrebbe gridare, ma uno dei tre le tiene la mano sulla bocca, con tanta forza che non riesce a respirare. La immobilizzano e...
Le lacrime le scendono veloci sulle guance e il dolore è insopportabile. Vorrebbe morire, subito!
- Teresa. Teresa, che hai? - le dice Dario avvicinandosi.
Lei sbatte le palpebre veloce e trae un lungo respiro, come se riemergesse da un'immersione. Ha gli occhi umidi.
- Che cosa è successo? Sei pallida, ti senti bene?
Teresa fa segno di sì con la testa. Era da molto che quell'incubo non tornava ad assalirla. Era bastato ascoltare quella frase per far esplodere tutto.
- Andiamo a casa - dice lui incamminandosi.
Si avviano per le scale. Fa caldo e lui si toglie la giacca. Sotto le ascelle ha due aloni e ali di sudore disegnate sulla schiena. Lei è qualche gradino dietro, lo osserva camminare, è ancora scossa. Si chiede quando e se riuscirà mai a dimenticare.
Nell'aria si sente profumo di limoni e menta. Il portoncino di legno le sembra più piccolo, come l'ingresso di una tana. Entrano. Teresa si guarda intorno e resta ferma.
- Ma si può sapere stasera che hai? - le chiede Dario fissandola. Si avvicina, la bacia sul collo e le sfiora il braccio.
- Dai, bambola, ho deciso che non ti lascio sola domani, resterò un altro giorno - e le affonda le mani nella scollatura del vestito.
Teresa si irrigidisce, ha lo sguardo perso nel vuoto e quella parola che le rimbomba nel cervello. Bambola... bambola... tutta sola... non ti lascio sola...
- Vado a fare la doccia, non scappare - le dice andando in bagno.
Lei resta immobile fino a quando non sente il rumore della porta che si chiude a chiave. Fa un passo lento, poi diventa frenetica. Va in camera da letto, tira fuori dall'armadio la valigia e prende a riempirla con tutte le sue cose. Infila tutto dentro come capita, senza pensarci. Suda, respira a fatica e ha paura. Deve fare in fretta, vuole andare via, scappare.
È uno di loro. L'ha chiamata bambola, deve essere per forza uno di loro. Quella sera lui c'era, è sicura. Ma come ha fatto a non capirlo prima?
Il rumore dell'acqua smette. La porta del bagno si apre e lei non ha ancora finito.
Deve restare calma, non deve farsi prendere dal panico. Strattona la grossa valigia e la infila dentro l'armadio, appena in tempo. Dario compare sulla soglia. È nudo e l'acqua gocciola sul pavimento. Lei è ferma, con la schiena appoggiata all'anta.
- Sei ancora vestita? - le chiede sorridendo.
Teresa non risponde, lo guarda soltanto. Fissa ogni dettaglio, dai baffetti ai peli sul petto, fino al pube e poi i piedi. Cerca un particolare, una conferma. Deve per forza essere uno di loro, non può essersi sbagliata.
Lui fa un passo verso di lei, che si ritrae.
- Vieni qua, bambolina.
Si avvicina e la sfiora con una carezza.
Lei chiude gli occhi e inspira. L'odore. Sì, certo, l'odore è senza dubbio lo stesso, è uno di loro. Ha paura. Deve trovare il modo per andare via, per scappare. Dario la stringe.
- Spogliati, vieni a letto - la invita.
Deve farlo, lo deve assecondare oppure sospetterà. Accenna un sorriso e con un gesto lento comincia a slacciare il vestito.
Lui sorride compiaciuto e va a infilarsi sotto le lenzuola, così com'è, nudo e ancora bagnato. La brezza fa svolazzare la tenda della camera. Teresa sfila via il vestito e resta in reggiseno e mutande. Dario la fissa e fa scivolare la lingua sulle labbra. Ha fame di lei, la vuole prendere, la vuole possedere. Lei lo sa, esita.
- Aspetta - dice lui all'improvviso.
Teresa spera, ma allo stesso tempo ha paura.
- Mi prepari una di quelle tue tisane? Credo di aver esagerato con il vino - le chiede con un sorriso.
Teresa fa subito segno di sì con la testa e va svelta in cucina. Mette a bollire l'acqua e guarda verso la porta. Cammina di soppiatto nel corridoio e si affaccia alla camera da letto. Lui è sotto le lenzuola e si prepara per lei. Torna in cucina, fruga nella sua borsetta, le dita sfregano contro qualcosa di ruvido, si taglia. Guarda la goccia di sangue sulla punta del medio. Lo infila in bocca, chiude gli occhi e riconosce il sapore. Torna a frugare nella borsa e finalmente le trova. Toglie l'acqua dal fuoco, la versa in una tazza, prepara la tisana e ci svuota dentro il contenuto del flacone. Spera che il sapore non si senta e ci aggiunge un po' di zucchero.
Dario la guarda entrare e la segue con gli occhi. Lei gli porge la tisana, lui assaggia e annuisce soddisfatto. La beve quasi tutta in un sorso e appoggia la tazza sul comodino, le afferra un polso e la tira sul letto. Teresa si siede rigida sul bordo. Lui comincia ad accarezzarla e a baciarla, prima dietro un orecchio, poi la schiena, con un tocco leggero che la fa rabbrividire. Ma non sono brividi di piacere, è solo paura. La costringe a sdraiarsi, le sfila l'intimo e inizia a baciarla dappertutto. È frenetico, sbava e ansima. Lei resta immobile, non lo asseconda, ma lui non se ne accorge nemmeno, tutto preso a soddisfare solo le sue voglie. A un tratto i movimenti di Dario diventano lenti e impacciati. Tossisce, respira a fatica. Rantola qualcosa, ma non riesce a parlare, si affloscia sul letto.
Teresa aspetta qualche secondo, poi scatta in piedi e lo fissa. Il sonnifero, quello che usa quando gli incubi non le danno tregua, ha fatto effetto quasi subito. Con quella dose dovrebbe dormire fino a mezzogiorno, si dice soddisfatta.
Si riveste in fretta, apre l'armadio e riprende la valigia. È una di quelle grandi, adatta per chi deve stare fuori per molto tempo. Ogni tanto guarda verso il letto, per assicurarsi che lui non si svegli. Infila a forza gli abiti dentro, senza ordine e senza criterio, e per farla chiudere ci sale sopra con le ginocchia.
Tira un sospiro e asciuga la fronte sudata con il dorso della mano.
Un soffio d'aria le accarezza la schiena, una carezza gelida che la fa trasalire. Si volta di scatto terrorizzata verso Dario. Si alza lentamente e gli va vicino. Allunga la mano, esita, lo tocca piano, poi lo scuote. Dorme come un sasso. Lo fissa, ma nella sua mente c'è solo nebbia e dolore. Una nuova consapevolezza comincia a farsi largo tra i suoi pensieri. Dove andrà? Lui sa. Lui la conosce. Deve andare via per sempre, da tutto e tutti. Deve allontanarsi anche da casa sua, dalla sua famiglia, da sua madre. Scomparire. Ecco quello che deve fare: scomparire.
Che cosa ho fatto? Pensa mentre gli occhi le si riempiono di lacrime. Quando si sveglierà sarà furioso, chiamerà i suoi amici per trovarla, per vendicarsi, e la prenderanno di nuovo.
Guarda la valigia, poi guarda lui. Dalla cerniera fuoriesce il lembo di un foulard rosso. Si abbassa, lo sfila con delicatezza e lo fissa mentre lo tiene tra le mani. Se lo avvolge intorno al collo e stringe un po', le manca il respiro e molla la presa. Sarebbe bastato stringere un poco di più e...
Apre la cerniera della valigia e comincia a svuotarla con la stessa foga di quando l'ha riempita. Butta tutto sul pavimento, senza pensarci. Poi alza lo sguardo su di lui e annuisce.
È buio fuori. La luna illumina la lunga scalinata e le luci delle case sono quasi tutte spente. Nessuno farà caso a lei. Quello è un paese turistico, la gente va e viene a qualunque ora del giorno e della notte. Teresa deve scappare, e quello è il momento migliore per farlo. Apre il portoncino di legno, tira fuori la valigia, lo richiude accuratamente e poi fissa le scale che portano fino alla piazzetta dove è parcheggiata la sua macchina. Ce la farà, si dice. I primi dieci scalini le servono per trovare il ritmo e la giusta inclinazione per far scivolare la valigia. Fa sempre più caldo. Il paese è deserto e silenzioso. Di rado passa una nuvola che oscura la luna e il buio sembra inghiottirla. Si fa coraggio stringendo più forte il manico della valigia. Da qualche punto lontano nella notte arriva una musica, è l'unico rumore.
E sono venti. Quante volte le ha contate quelle scale in due mesi. Le conosce a memoria. Si ferma a tirare il fiato, guarda la valigia, si assicura che sia chiusa. Sente delle voci, si irrigidisce. Non sono italiani, è solo la famiglia tedesca che abita qualche casa più in basso. Stanno litigando. Anche i tedeschi litigano, pensa sorridendo. Si sente più sollevata, ma lo sarà del tutto quando arriverà alla macchina.
Altri venti scalini tutti di seguito, senza fermarsi. La valigia diventa a ogni passo sempre più pesante, ma è normale che sia così.
Una brezza leggera si alza a muovere la notte immobile, Teresa si tocca la gola e sfiora il foulard rosso. Se l'è rimesso, dopo, e ha deciso di tenerlo per ricordo. Riprende a scendere, arriva a metà che è quasi senza fiato. Non si può fermare adesso, non deve, ancora un piccolo sforzo e tutto sarà finito. La nebbia che le aveva offuscato la mente si è alzata e ha visto tutto chiaramente, in tutta la sua essenza. Lo ha riconosciuto, era lui, era uno di loro. Ora capisce perché le chiedeva quelle cose. Quelle che non avrebbe mai avuto il coraggio di chiedere a sua moglie, quelle che si chiedono solo a un'amante, o a una puttana. Quelle che si possono prendere solo con la forza.
Si ridesta, non vuole pensarci. Riprende a scendere. Il rumore ritmico della valigia che sbatte sugli scalini l'accompagna. Non teme più che si possa svegliare qualcuno, non le interessa, il suo unico pensiero è andare via.
Manca poco, ormai, ancora pochi scalini. Sono centoventi in tutto, lei lo sa bene.
In fondo alla scale c'è un uomo che sta tirando l'ultima boccata alla sigaretta prima di cominciare la salita. Intravede il puntino rosso della brace. Teresa si ferma a osservarlo. Lui butta la cicca per terra e la calpesta con la scarpa, poi guarda su e i loro occhi si scontrano. Lei abbassa la testa e riprende piano a scendere. Lui comincia a salire. Si incrociano allo scalino centodieci. Lui le sorride. È giovane, indossa pantaloni bianchi e una camicia blu. Ha i capelli lunghi e ricci e il viso abbronzato, come tutti. Lei non ricambia, prosegue.
Centoundici. È sudata e l'aria che viene dal mare la fa rabbrividire.
Centododici. Quasi scivola, la valigia si inclina, ma la raddrizza facendo forza con le braccia. Si sente esausta.
Centotredici. Il fischio di una sirena rompe il silenzio. Viene dal porto, sarà un traghetto o un rimorchiatore.
Centoquattordici. Un gatto salta sul muretto accanto a lei, gli occhi gialli scintillano nel buio.
Centoquindici. Ha sete.
Centosedici. La musica che arrivava da lontano finisce. Resta solo il silenzio.
Centodiciassette. È quasi fatta. Scorge la sua macchina.
Centodiciotto. Il bordo dello scalino si muove. No!
Centodiciannove. Rotola per terra, la valigia si rovescia, sente il rumore della cerniera che si strappa.
- Ehi, tutto bene?
Teresa alza lo sguardo sulle scale. Il giovane di prima si è fermato e la guarda, ha già percorso quale scalino nella sua direzione.
- Ha bisogno di aiuto, si è fatta male? - insiste.
Lei abbassa lo sguardo sulle sue ginocchia. C'è del sangue. Quando era bambina le capitava sempre. Giocava nel cortile, correva in bicicletta, cadeva e si sbucciava le ginocchia come i maschi. Sua mamma era disperata. In un angolo del cortile c'era un grosso bidone dove suo padre ci stoccava il gasolio. C'è ancora, solo che è arrugginito e vuoto da anni. Ci aveva già pensato, adesso però lo vede chiaramente e sa come lo riempirà.
- Signora, ha bisogno di aiuto? - grida ancora lui.
Teresa guarda la valigia, dalla cerniera rotta esce la mano rigida di Dario. Si rialza in fretta e l'afferra per infilarla dentro. Il tocco è gelido come il marmo. La spinge con tutta la forza e prova a richiudere la cerniera, poi con uno strattone rimette in piedi la valigia. Guarda verso il giovane. È ancora fermo. Esita, forse non ha voglia di scendere di nuovo tutte quelle scale. Lei alza la mano e sorride per rassicurarlo. Inghiotte la saliva, ha la gola secca. Sta tremando. Trae un respiro profondo per calmarsi. Dallo squarcio della valigia adesso escono solo due dita.

Centoventi. Ce l'ha fatta. È libera.

giovedì 15 settembre 2016

Quando ci bastava solo un pallone (da La Città del 24/7/2016)

di Rocco Papa

(illustrazione di Licio Esposito)

Io sono di quella generazione che basta che c'era un pallone. La nostra vita di ragazzini e poi di adolescenti, girava intorno a un pallone, era l'unica fonte di gioia vera. Un piccolo cortile o solo un tratto di strada, due pali della luce abbastanza vicini si trasformavano nello stadio più bello nel quale potersi cimentare. La villa comunale, il retro del teatro Augusteo (fino a quando non arrivava il vigile a sequestrarci il pallone), ma anche i campi del Seminario (per arrivarci percorrevamo un breve tratto a piedi sull'autostrada, ma all'epoca passava una macchina ogni dieci minuti), lo spiazzo dietro la scuola a via Vernieri o a via Cesare Battisti, le palazzine dei ferrovieri. Quanti stadi e campi da calcio c'erano in città in quegli anni. Nella nostra mente lo erano e le partite duravano fino a quando quello con il pallone non andava via, chiamato a gran voce dalla mamma affacciata al balcone o peggio, poteva arrivare direttamente a invadere il campo, impugnando quell'arma di distruzione di massa che era lo “zoccolo” di legno. I palloni, i super Santos, quando si bucavano si riparavano con l'accendino e un cacciavite. Si scioglieva un po' di gomma e la si spalmava sul buco e poi tutti dal gommista a gonfiarlo, anche se durava poco. A tal proposito vi segnalo un libro, si chiama “La linea di fondo” e lo ha scritto un amico, Claudio Grattacaso, ci troverete tutte queste cose, oltre a tanto altro ovviamente. Insomma, il nostro mondo era un pallone e non saprei dire quando, a quale età ha smesso di esserlo, se è davvero successo. La nostra scuola calcio era la strada e non c'era altro. Ci siamo ritrovati adulti e per molti versi anche impreparati ad affrontare il mondo vero, quello dei grandi. Oggi guardiamo con nostalgia i ragazzi che eravamo allora, ci sono tanti gruppi sui social che ripropongono foto degli oggetti cult dell'epoca, a partire da quei gelati che oggi sarebbero immangiabili e fuorilegge, tanto erano pieni di coloranti (ricordate l'Arcobaleno? Costava cinquanta lire, era il più economico e il più schifoso, ma andava bene anche quello se avevi solo cinquanta lire), ai giochi. Operazione nostalgia? Forse, ma non soltanto.
Oggi vedo gente che va in giro a cercare Pokemon, e allora mi dico che eravamo cento, mille volte più felici allora. Forse non mi sono spiegato, e molti forse nemmeno sanno che cosa sono 'sti pokemon ed è meglio per loro continuare a vivere nell'ignoranza, ma io li vedo, con i cellulari in mano in cerca di questi esserini immaginari, o sarebbe meglio dire virtuali, che si materializzano in mezzo alla strada, ma solo se guardi attraverso lo smartphone. Non me ne vogliano gli appassionati, ma qua siamo alla frutta. Mi diranno che è un gioco, anche i tossici vedono i mostri dopo una dose di crac, e senza nemmeno aver bisogno di usare il telefonino.
Al di là delle facili battute, che sulle colonne dei giornali e sui social si sprecano in questi giorni, eppure l'applicazione risulta essere già tra le più scaricate al mondo, dovremmo fermarci un momento a riflettere su quanto accade. Ecco, direte, parte il predicozzo, ma invece non è così, non sarei nemmeno capace di fare la predica a qualcuno. Voglio proporvi, per scherzo, una intervista doppia fatta a un tredicenne di oggi a confronto con uno degli settanta, o ottanta.
Qual è il gioco preferito che fai con gli amici? 1) playstation; 2) partita a pallone dopo la scuola. La cosa più trasgressiva che hai fatto? 1) Abbiamo sfasciato la vetrina di un negozio, per gioco, ci stavamo annoiando; 2) abbiamo rubato una maglia alla Standa. Cosa fate di pomeriggio quando ti incontri con gli amici? 1) andiamo in giro in motorino, stiamo sulle panchine e fumiamo; 2) organizziamo un partita di pallone. Il tuo rapporto con l'alcol? 1) mi piace la birra, la vodka, il gin, bevo spesso con gli amici. 2) mio padre beve un bicchiere di vino, a volte. La tua prima esperienza sessuale? 1) l'anno scorso, nel bagno della scuola; 2) ho un giornaletto... però... Il tuo rapporto con le ragazze? 1) C'è una mia amica di scuola, anche se va con tutti, ma non siamo fidanzati; 2) Rompono le scatole. Però c'è una che mi piace, ma non ho ancora trovato il coraggio di farle la dichiarazione. Il tuo rapporto con la droga? 1) La sera fumo uno spinello con gli amici. Una volta uno mi ha fatto fare un tiro di coca; 2) Conosco un drogato, è pericoloso.

Mi fermo qua, credete che abbia esagerato? Non siatene certi, per le risposte del tredicenne di allora, oggi quarantacinquenne, ho scavato nella mia memoria, ma le risposte del ragazzo di oggi sono tratte da vere domande, fatte a giovanissimi in carne e ossa, che non hanno particolari problemi e appartengono a famiglie senza problemi. Per voi è tutto normale?

lunedì 22 febbraio 2016

Armandino vittima dei bulli (da La Città del 21/2/2016)

di Rocco Papa
(illustrazione di Licio Esposito)

Con l'andatura ondeggiante, il passo incerto di un ragazzo che pesa novanta chili ed è alto appena un metro e sessanta, Armandino arrivò ai piedi delle scale. Su, in cima, c'era la scuola. Fissò la meta e già la gola gli divenne secca, il cervello si riempì di immagini, cose brutte. Il martedì era il giorno peggiore, c'era educazione fisica. Trasse un respiro profondo e affrontò la salita come se dovesse scalare una montagna. La vista traballante, a causa degli occhiali che aveva dovuto riparare con il nastro adesivo dopo l'ultima volta. A metà delle scale si fermò un momento a riprendere fiato.
"Ciao, Armandi'" il saluto distratto di un compagno di classe.
"Cia'" rispose.
Il cancello era stato pitturato di blu di recente, ma da una parte era già spuntata una scritta granata che inneggiava agli Ultras della Salernitana. Più sotto, per fortuna molto più piccola e scritta in nero, c'era una dedica anche per lui: Amardino u' chiatton se pisc dint u cason.
L'aveva vista per caso, ma non aveva avuto il coraggio di cancellarla, preferiva ignorarla. Alla fine delle scale sentì la campanella suonare e aumentò l'andatura. In classe c'era il solito brusio che precede l'ingresso degli insegnanti. Le tre belle della prima C parlavano tra loro, senza guardare nessuno e spettegolando su ciascuno. Poi c'era Annalisa, era la più bella di tutte e Armando non riusciva a staccarle gli occhi da dosso, ma attento a non farsi sgamare. Da quando era iniziato l'anno scolastico non era riuscito mai nemmeno a dirle ciao. All'ultima fila, poi, c'erano loro: i professionisti del nulla, Matteo e Filippo. Giocavano a pallone nelle giovanili di una squadra locale. Si sentivano già calciatori veri, e lo facevano credere anche a tutti gli altri, che li adoravano come se fossero degli dei. Facevano tutti quello che dicevano, tutti tranne Annalisa, perché lei era troppo bella.
L'aria puzzava di fumo. Ad Armando il fumo dava fastidio, soffriva d'asma. Lentamente si alzò, andò verso la finestra e l'aprì.
"Chiatto', chiudi che fa freddo" intimò Filippo.
"Ci puzza" rispose.
"Non me ne fotte, devi chiudere".
Filippo si avvicinò, lo spostò con una spinta e chiuse la finestra. Le prime tre ore filarono via come al solito, ma alla quarta c'era educazione fisica.
Armando aveva un certificato medico che lo esonerava dalla pratica sportiva, si mise a sedere sulle scale delle tribune con il cellulare in mano senza badare a cosa facevano gli altri.
La prima pallonata lo colpì alle cosce e per poco non gli faceva volare via il telefono dalle mani. I due belli se la ridevano, gli altri tacevano. Trascorsero pochi minuti e un altro tiro fu scagliato nella sua direzione. Questa volta il colpo lo prese in pieno volto. Gli occhiali, rimessi insieme alla meglio, si frantumarono definitivamente; Armandino cadde all'indietro e prese a sanguinare dal naso.
Chissà, forse fu il sapore ferroso del sangue che gli invase la bocca a ridestarlo, forse furono tutti quei pensieri che si accavallarono nella testa mentre li sentiva ridere. Tornò indietro con la mente a tutto ciò che era stato il suo anno scolastico fino a quel momento. Sempre in tensione, sempre a guardarsi le spalle, sempre attento alle sue cose, sempre zitto, perché qualunque cosa dicesse era inutile. Sempre fermo, perché anche il solo camminare faceva ridere. Armandino si rialzò a fatica. Perdeva sangue dal naso. Si mise in piedi, con lentezza scese gli scalini e puntò verso Filippo. Il rumore del pallone che rimbalzava era l'unico a rompere il silenzio che era calato nella palestra. Erano tutti fermi e tutti lo guardavano. Armandino era al centro della scena. Erano tutti fermi, e tutti aspettavano che accadesse. Filippo lo scrutava incuriosito, rideva e cercava di capire quali fossero le sue intenzioni. Ma non poteva capirlo, non quella mattina. Armandino si fermò davanti a lui. Gli altri della classe si strinsero in cerchio attorno ai due, forse pregustando uno scontro fisico dall'esito scontato.
"Che vuoi, chiatto'?" disse Filippo avvicinando minacciosamente la sua faccia a quella di Armando.
Lui non rispose, perché in realtà non lo sapeva che cosa voleva. Forse voleva solo stare tranquillo, per conto suo a pensare ai videogiochi. Guardò i compagni che lo guardavano. Incrociò gli occhi di Annalisa che lo fissavano, abbassò lo sguardo e arrossì.
"Allora, chiatto', che vuoi?"
Armando non voleva niente. Prese dalla tasca il coltello che quella mattina si era portato dietro da casa, lo stesso usato per fare colazione, e lo infilò nella pancia di Filippo.

giovedì 18 febbraio 2016

Il festival del giallo le Notti di Barliario a Salerno

Con gli amici Carmine Mari e Tina Cacciaglia condivideremo il festival del giallo di Salerno "Le Notti di Barliario", organizzato dall'associazione Porto delle Nebbie. Un programma davvero ricco, a noi ci troverete sabato pomeriggio a partire dalle 15,30 al Duomo, per una visita guidata e riscritta sui luoghi e nella vita del grande "alchimista" salernitano. Si dice che avesse fatto un patto con il Diavolo per... Vabbè, venite e lo scoprirete. Vi aspettiamo

giovedì 4 febbraio 2016

Porto, il grande scippo che ferisce la nostra essenza (da La Città del 3/2/2016)

Porto, il grande scippo che ferisce la nostra essenza

di Rocco Papa


Ci sono città che hanno un rapporto viscerale con il mare. Salerno è, o forse era una di queste. Un rapporto così intimo da costringere quasi i suoi abitanti a non allontanarsi mai troppo da quell'elemento, dal mare, dal sale sulle labbra quando c'è vento, dal rumore della risacca o delle onde che si infrangono con violenza sugli scogli, quando il cielo è così grigio e l'orizzonte fonde insieme l'aria e l'acqua. 
Una simbiosi, un polmone supplementare per chi è nato e cresciuto in una città di mare. Quando siamo lontani resistiamo poco. Almeno è ciò che capita ed è capitato a me quando, per motivi di lavoro, ho dovuto lasciare momentaneamente Salerno. In giro per la Campania ci chiamano "pisciaiuoli", sfottò nato sui campi di calcio, ma che racchiude in sé una grande verità, perché dal mare Salerno nel corso dei secoli ha tratto sostentamento. La pesca, grazie a un Mediterraneo fecondo, era la fonte di sussistenza di migliaia di famiglie.
Le donne, avvolte negli scialli neri, quando il cielo prometteva tempesta, accendevano ceri alla Madonna perché i loro uomini tornassero sani e salvi dal mare. Le lunghe attese a guardare quell'orizzonte minaccioso, e nel cuore l'ansia di vedere spuntare un puntino che si trasformava in paranza man mano che si avvicinava. E gli uomini, robusti e con i visi scavati dal sole e dal sale, con le mani segnate dalla fatica, attaccati a quella pesca, ansiosi di fare ritorno e di barattare il loro pesce con il pane quotidiano. Era questa Salerno, non solo questo, ma soprattutto mare.
Oggi, purtroppo, la sensazione è che questo rapporto non è più lo stesso. Un po' per il mutare dei tempi, un po' anche perché ormai a Salerno di salernitani "veraci" ce ne sono pochi, e quindi questa simbiosi si è un po' allentata. E mettiamoci pure che nel corso dei decenni questo nostro mare è diventato una cloaca, qualcosa da guardare da lontano, in cartolina, ma difficile da vivere.
Resta il fatto che Salerno è una città di mare e di mare può e dovrebbe vivere, ecco perché sono indignato da quanto sta accadendo all'unica vera grande azienda salernitana: il porto commerciale. Il porto è l'unico comparto della nostra città che ha sempre funzionato e che, nel corso degli anni, ha tenuto un trend di crescita positivo. È l'unica "azienda", o accorpatore di aziende, che può vantare imprenditori seri e veri, che dà lavoro a centinaia di persone senza contare l'indotto. Al momento rappresenta l'unica fideiussione che la città può spendersi a livello industriale, quando tutto il resto è fallito miseramente e ormai, giustamente, si punta sul turismo e su altro.
Accorpare lo scalo salernitano a quello di Napoli, che versa in condizioni disastrose, è come mettere una mela buona in un cesto di mele marce. Non me ne vogliano gli amici napoletani, ma purtroppo è così, e questo perché in tutti questi anni c'è stata una cattiva gestione dello scalo che avrebbe dovuto essere, per posizione e grandezza, a livelli nettamente superiori.
Il porto di Salerno, invece, nonostante gli immensi problemi logistici, dovuti a una localizzazione scellerata avvenuta negli anni settanta (farlo in litoranea sarebbe stato meglio), si è imposto nel silenzio e con il lavoro serio degli operatori portuali. Ricordiamo che solo sei anni fa, a luglio 2010 a Lisbona, il porto di Salerno fu nominato miglior porto europeo per movimentazione merci e passeggeri rispetto allo spazio disponibile.
Ecco, adesso tutto questo lo si vuole cancellare, accorpando la direzione degli scali a Napoli. Proprio ciò che avviene tutti i giorni in Italia: ciò che funziona viene smembrato, cambiato; ciò che non funziona viene premiato. Si tratta di una decisione governativa, ma la cosa non tranquillizza, anzi, visto come vanno le cose, a me non pare che questo Governo ne abbia azzeccate molte di decisioni. Ma quali saranno le conseguenze?
Gli operatori salernitani, imprenditori che da decenni hanno investito tutto nel nostro scalo, temono a ragione un ridimensionamento a favore dello scalo partenopeo. Pensate solo alle navi da crociera. Da Napoli potrebbero decidere di non farle più attraccare a Salerno e dirottarle tutte nel capoluogo, così addio turismo. Perché non dovrebbero farlo?
Ciò che nel porto di Napoli non ha funzionato fino a oggi sono stati proprio i dirigenti, l'Autorità, e il Governo che cosa fa? Dà a questa Autorità il potere di decidere, e forse rovinare, anche su altri scali come quello di Salerno, che fino a oggi hanno funzionato alla grande. Per questo motivo noi salernitani dovremmo stringerci intorno agli imprenditori del nostro scalo, intorno al porto, e protestare contro questa assurda decisione, prima che sia troppo tardi.

lunedì 1 febbraio 2016

In viaggio nella notte dei cattivi pensieri (da La Città del 31/01/2015)


In viaggio nella notte dei cattivi pensieri

di Rocco Papa

Adesso che anche lo spegnimento delle luminarie ha decretato ufficialmente la fine del periodo di bontà su commissione che chiamiamo Natale, si torna alla vita "normale". Ora possiamo tornare a ignorare quelli a cui abbiamo finto di interessarci per onorare la nascita di Cristo: basta parlare degli ultimi, degli affamati, degli ammalati, degli anziani soli, insomma, che ognuno torni a pensare a se stesso. In questo vuoto mi è venuto in mente un episodio che un amico mi ha raccontato tanto tempo fa. Mi raccontava che capitano notti insonni, nel corso delle quali si ha la sensazione che tutti i cattivi pensieri si siano accordati per non farti dormire. Capita che a stare in casa proprio non ce la fai e devi uscire, e dentro hai una maledetta voglia di lasciarti tutto alle spalle, sparire, partire. La meta della passeggiata notturna è la stazione. Lo scalo non è come lo vediamo adesso, non ci sono treni veloci e frecce, l'edificio è cadente e decadente.

Come sarebbe partire, sparire davvero? Il mio amico dice di averlo pensato spesso. Mentre lo sbuffo d'aria di un treno in arrivo gli scompiglia i capelli, si imbatte in una delle tante figure che di notte animano, o animavano, visto che sono stati cacciati via, gli scali ferroviari italiani e di tutto il mondo. La stazione è l'ultimo mondo possibile, l'ultimo riparo prima della notte. L'uomo è alto, robusto, indossa un vecchio cappotto grigio, ma forse in origine era di un altro colore, un cappello di lana calzato sulla testa, dal quale escono capelli ricci e grigi. La barba folta, scura con chiazze grigie, ne nasconde i lineamenti ma non gli occhi. Quelli sono chiari, incredibilmente chiari. Si trascina dietro due grosse buste di plastica: tutto il suo mondo.

E così, durante una notte piena di cattivi pensieri, si ritrova a conversare con un barbone. Come sia accaduto, di preciso, il mio amico non lo ha mai capito.
«Questo è il treno che non va da nessuna parte» dice il barbone indicando una carrozza ferma nella quale abitualmente dorme. «Un treno senza locomotiva, fermo su un binario morto. È il nostro treno, di quelli come me, che non vanno da nessuna parte».
Il mio amico lo guarda perplesso e comincia a chiedersi che ci fa in mezzo ai binari, al freddo, insieme a quell'uomo.
«Questo treno non si muove, ma la gente che ci sale è in viaggio» riprende il barbone. «Noi, ormai, possiamo viaggiare solo con la testa, e il nostro viaggio dura solo una notte, al mattino è già finito. Quando entriamo là dentro, il mondo fuori non esiste più e davanti a noi c'è solo il lungo viaggio della notte».
Il mio amico scopre che lo chiamano Il Professore e gli chiede il perché di quel nome.
«Forse perché lo ero; forse perché mi ritengono più intelligente di loro» spiega.
«Loro chi?» domanda il mio amico.
«Loro, quelli come me» risponde sorridendo. «Siamo quelli che hanno dimenticato il mondo. Noi siamo i sopravvissuti a tutta questa confusione, alla violenza, all'egoismo. Siamo gli Ultimi. Così ci chiamano, gli ultimi, ed è vero. Siamo gli ultimi umani rimasti sulla faccia della terra».
A questo punto il mio amico pensa che l'uomo forse è ubriaco. Il Professore sorride e sfoggia la sua dentatura marcia. A momenti l'odore di urina, di putrefatto, quando il vento cambia direzione, è insopportabile. Una zaffata che prende al naso e alla gola. Il mio amico finge di non sentirla per non metterlo in imbarazzo.
«Io sono come una specie di custode» riprende il Professore. «Difendo quelli come me, da quelli come te. Difendo il mondo, il mio mondo, da chi vuole salvarci a tutti i costi».
«Non capisco» risponde perplesso.
«E che cosa c'è da capire, amico mio? Mio giovane amico». Il vecchio indica il treno di fronte a loro. «Vedi - dice sorridendo - nessun viaggio, nessun luogo potrà restituirti la pace che cerchi. Che cosa porti nella valigia? Qualche vestito, il necessario a sopravvivere, ma quello che ti serve per vivere ce l'hai qua dentro - e indica il petto del mio amico con un dito -. L'anima, il cuore, quelle sono cose che non si mettono in una valigia. Sei tu la valigia del tuo cuore, della tua anima, del tuo essere. Ovunque andrai, ovunque questo viaggio che intendi fare ti porterà, quelle cose saranno sempre con te, come un peso, o un sollievo, dipende da te. Nessuna cosa è buona o cattiva, è l'uso che ne facciamo a renderla buona o cattiva. Anche la vita, caro ragazzo, non è né buona, né cattiva, è solo Vita, e dipende da noi come vogliamo viverla. Sta per partire. Che cosa hai deciso?»
Il mio amico si sveglia di soprassalto. È stato solo un sogno.

lunedì 25 gennaio 2016

Affondamento Corazzata Roma. Un pezzo di storia di Operazione Perseo

Raffaele Di Palma, il protagonista di "Operazione Perseo", dopo essere scampato all'affondamento della Perseo, è imbarcato sulla corazzata Vittorio Veneto, impegnata in una dura battaglia contro i tedeschi, nel corso della quale è affondata la corazzata Roma, fiore all'occhiello della Regia Marina Italiana. La storia della Roma in questo eccezionale documentario dell'Istituto Luce...



martedì 5 gennaio 2016

Operazione Perseo è on-line. Da oggi in vendita l'e-book

Ci siamo! Il giorno è arrivato e il romanzo Operazione Perseo è finalmente on-line. Di seguito tutti gli store dove è possibile acquistarlo al fantasmagorico prezzo di € 1,99... Siamo economici e, speriamo, anche popolari.

MONDADORI

FELTRINELLI

IBS (qui è possibile leggere anche un estratto)

AMAZON

BOOK REPUBLIC

RIZZOLI

GOOGLE PLAY

HOEPLI

SAN PAOLO STORE

E-BOOK LIFE

FREE ONLINE

LIBRERIA EBOOK

lunedì 4 gennaio 2016

MENO 1. Operazione Perseo: i nomi dei protagonisti

Buongiorno, amici, ci siamo quasi. Martedì 5 gennaio sarà online il romanzo operazione Perseo in formato e-book. Voglio presentarvi i nomi dei protagonisti della storia ambientata ai nostri giorni.
Angela Di Palma, agente del FBI, vive a New York ed è la nipote di Raffaele, il marinaio scampato all'affondamento della torpediniera Perseo;
Bruno Ferri, capitano dei carabinieri, vive a Roma ed è uno scapolo incallito. La sua vita è tenuta in ordine da Maria, la cameriera filippina che ogni mattina gli prepara la colazione a base di cornetti e marmellata. Lui vorrebbe la Nutella, ma lei lo rimprovera di essere già troppo in carne.
Claudio Parisi, professore di Antichità Romane presso l'università di Roma. Originario della Sicilia, la sua passione per la storia nasce grazie alle favole che gli raccontava sua madre tra le rovine della città romana di Agrigento. Sarà lui, inconsapevolmente, a dare il via alle indagini.

Questi sono alcuni dei protagonisti della parte ambientata nei nostri giorni. Il resto, se vorrete, lo scoprirete a partire da domani.

Operazione Perseo (ed. LibroMania)
In e-book, Il 5 gennaio 2016 sui principali store on-line.

e questi sono gli indirizzi di alcuni book store on-line dove è possibile acquistare il libro.


venerdì 1 gennaio 2016

MENO 3. Operazione Perseo: l'inizio al Dipartimento di Chimica della New York University

Innanzitutto buon anno a tutti. Siamo a meno tre giorni dall'uscita ufficiale di Operazione Perseo, il mio nuovo romanzo. Dopo i primi indizi, vi regalo anche le prime righe. La storia comincia a...

New York, USA, 30 Aprile 2007.

Il Dipartimento di Chimica della New York University a Greenwich Village, Manhattan, era situato in un edificio di mattoni rossi, che si apriva sul mondo con larghe finestre sigillate. La serata era tiepida, l'inverno appena trascorso non era stato rigido come ci si aspettava e la primavera sapeva già d'estate. L’edificio universitario, nella sua sobrietà, si presentava completamente buio, fatta eccezione per una luce al piano dove erano ubicati i laboratori. Il professore Antonio Rossi e il suo giovane assistente Jack Simmons, erano alle prese con una ricerca che negli ultimi giorni aveva assorbito gran parte del loro tempo. Avevano a disposizione i migliori strumenti che la tecnologia potesse mettere a disposizione degli scienziati, eppure qualcosa non quadrava.

Operazione Perseo (ed. LibroMania)
In e-book, Il 5 gennaio 2016 sui principali store on-line.

e questi sono gli indirizzi dei primi book store on-line dove è possibile acquistare il libro.