lunedì 19 settembre 2016

Il racconto: "In fondo alle scale".

Il racconto giallo pubblicato questa estate su La Città, ispirato a una storia vera.

Hanno cenato in un ristorante vicino al porticciolo. Dario le ha detto che voleva festeggiare la conclusione di un affare importante. È il trentuno di luglio, ha piovuto nel pomeriggio, e adesso l'aria è appiccicosa e umida, carica di sale e polvere rossa spinta dal vento d'Africa. Le luci si riflettono nello specchio d'acqua calmo, vibrano come un sogno.
Hanno affittato una casa per tutta l'estate, ma ci vive solo lei. Lui va e viene, si ferma al massimo per una notte. Deve lavorare, e poi c'è sua moglie e i tre figli, non può fare di più. Non può stare con lei, non ancora, ma le ha promesso che presto le cose cambieranno. Non lo ha detto chiaramente, ma glielo ha fatto capire. In fondo non c'è motivo di affrettare le cose, si conoscono da meno di un anno. Teresa gli crede. Tutti gli credono. Dario agisce sempre come se il mondo gli appartenesse, come se tutto gli fosse dovuto. Teresa non sa nemmeno che cosa l'ha colpita di lui. È più grande di lei di venti anni, non è un bell'uomo e non l'ha neppure corteggiata. È piccolo, magro, ma riesce a intimorire chiunque. Ha qualcosa dentro, una forza che ipnotizza, intimorisce, e con quella forza l'ha persuasa a dire di sì.
- Aspettami qua, vado a comprare le sigarette - le dice quando escono dal ristorante.
Lei fa segno di sì con la testa. Sono alla base dei centoventi gradini che portano alla casa. È tutto così quel paesino: scale, vicoli, piazzette e slarghi che si affacciano sul mare color cobalto. Il vento caldo le muove i capelli. Si lecca le labbra che sanno di sale. È venuta fuori anche la luna, si è fatta largo tra le nubi e fa scintillare il tratto di mare davanti alla spiaggia grande.
Due fidanzati, di fronte a lei, si scambiano l'ultimo bacio prima lasciarsi per la notte. Una nuvola oscura la luna e tutto diventa buio per un momento.
- Ciao, bambola - dice affettuosamente il fidanzato alla ragazza prima di andare via.
Teresa ha un sussulto e sente un brivido di paura percorrerle la schiena. È stata quella frase: ciao bambola. La mente la risucchia in un'altra vita, anni prima. Sono solo schegge nella memoria, i flash di un dolore ancora vivo.
Ci sono tre che la guardano. Lei distoglie lo sguardo, fa finta di niente. Loro si avvicinano, uno le dice: ciao, bambola, che ci fai qua tutta sola?
Lei non risponde e cerca di allontanarsi, ma un altro le si para davanti e la blocca, l'afferra per la mano e la trascina in un vicolo. Da quel momento la sua mente smette di registrare immagini, ma percepisce solo il dolore, la paura e l'odore di quegli uomini. Le strappano i vestiti, vorrebbe gridare, ma uno dei tre le tiene la mano sulla bocca, con tanta forza che non riesce a respirare. La immobilizzano e...
Le lacrime le scendono veloci sulle guance e il dolore è insopportabile. Vorrebbe morire, subito!
- Teresa. Teresa, che hai? - le dice Dario avvicinandosi.
Lei sbatte le palpebre veloce e trae un lungo respiro, come se riemergesse da un'immersione. Ha gli occhi umidi.
- Che cosa è successo? Sei pallida, ti senti bene?
Teresa fa segno di sì con la testa. Era da molto che quell'incubo non tornava ad assalirla. Era bastato ascoltare quella frase per far esplodere tutto.
- Andiamo a casa - dice lui incamminandosi.
Si avviano per le scale. Fa caldo e lui si toglie la giacca. Sotto le ascelle ha due aloni e ali di sudore disegnate sulla schiena. Lei è qualche gradino dietro, lo osserva camminare, è ancora scossa. Si chiede quando e se riuscirà mai a dimenticare.
Nell'aria si sente profumo di limoni e menta. Il portoncino di legno le sembra più piccolo, come l'ingresso di una tana. Entrano. Teresa si guarda intorno e resta ferma.
- Ma si può sapere stasera che hai? - le chiede Dario fissandola. Si avvicina, la bacia sul collo e le sfiora il braccio.
- Dai, bambola, ho deciso che non ti lascio sola domani, resterò un altro giorno - e le affonda le mani nella scollatura del vestito.
Teresa si irrigidisce, ha lo sguardo perso nel vuoto e quella parola che le rimbomba nel cervello. Bambola... bambola... tutta sola... non ti lascio sola...
- Vado a fare la doccia, non scappare - le dice andando in bagno.
Lei resta immobile fino a quando non sente il rumore della porta che si chiude a chiave. Fa un passo lento, poi diventa frenetica. Va in camera da letto, tira fuori dall'armadio la valigia e prende a riempirla con tutte le sue cose. Infila tutto dentro come capita, senza pensarci. Suda, respira a fatica e ha paura. Deve fare in fretta, vuole andare via, scappare.
È uno di loro. L'ha chiamata bambola, deve essere per forza uno di loro. Quella sera lui c'era, è sicura. Ma come ha fatto a non capirlo prima?
Il rumore dell'acqua smette. La porta del bagno si apre e lei non ha ancora finito.
Deve restare calma, non deve farsi prendere dal panico. Strattona la grossa valigia e la infila dentro l'armadio, appena in tempo. Dario compare sulla soglia. È nudo e l'acqua gocciola sul pavimento. Lei è ferma, con la schiena appoggiata all'anta.
- Sei ancora vestita? - le chiede sorridendo.
Teresa non risponde, lo guarda soltanto. Fissa ogni dettaglio, dai baffetti ai peli sul petto, fino al pube e poi i piedi. Cerca un particolare, una conferma. Deve per forza essere uno di loro, non può essersi sbagliata.
Lui fa un passo verso di lei, che si ritrae.
- Vieni qua, bambolina.
Si avvicina e la sfiora con una carezza.
Lei chiude gli occhi e inspira. L'odore. Sì, certo, l'odore è senza dubbio lo stesso, è uno di loro. Ha paura. Deve trovare il modo per andare via, per scappare. Dario la stringe.
- Spogliati, vieni a letto - la invita.
Deve farlo, lo deve assecondare oppure sospetterà. Accenna un sorriso e con un gesto lento comincia a slacciare il vestito.
Lui sorride compiaciuto e va a infilarsi sotto le lenzuola, così com'è, nudo e ancora bagnato. La brezza fa svolazzare la tenda della camera. Teresa sfila via il vestito e resta in reggiseno e mutande. Dario la fissa e fa scivolare la lingua sulle labbra. Ha fame di lei, la vuole prendere, la vuole possedere. Lei lo sa, esita.
- Aspetta - dice lui all'improvviso.
Teresa spera, ma allo stesso tempo ha paura.
- Mi prepari una di quelle tue tisane? Credo di aver esagerato con il vino - le chiede con un sorriso.
Teresa fa subito segno di sì con la testa e va svelta in cucina. Mette a bollire l'acqua e guarda verso la porta. Cammina di soppiatto nel corridoio e si affaccia alla camera da letto. Lui è sotto le lenzuola e si prepara per lei. Torna in cucina, fruga nella sua borsetta, le dita sfregano contro qualcosa di ruvido, si taglia. Guarda la goccia di sangue sulla punta del medio. Lo infila in bocca, chiude gli occhi e riconosce il sapore. Torna a frugare nella borsa e finalmente le trova. Toglie l'acqua dal fuoco, la versa in una tazza, prepara la tisana e ci svuota dentro il contenuto del flacone. Spera che il sapore non si senta e ci aggiunge un po' di zucchero.
Dario la guarda entrare e la segue con gli occhi. Lei gli porge la tisana, lui assaggia e annuisce soddisfatto. La beve quasi tutta in un sorso e appoggia la tazza sul comodino, le afferra un polso e la tira sul letto. Teresa si siede rigida sul bordo. Lui comincia ad accarezzarla e a baciarla, prima dietro un orecchio, poi la schiena, con un tocco leggero che la fa rabbrividire. Ma non sono brividi di piacere, è solo paura. La costringe a sdraiarsi, le sfila l'intimo e inizia a baciarla dappertutto. È frenetico, sbava e ansima. Lei resta immobile, non lo asseconda, ma lui non se ne accorge nemmeno, tutto preso a soddisfare solo le sue voglie. A un tratto i movimenti di Dario diventano lenti e impacciati. Tossisce, respira a fatica. Rantola qualcosa, ma non riesce a parlare, si affloscia sul letto.
Teresa aspetta qualche secondo, poi scatta in piedi e lo fissa. Il sonnifero, quello che usa quando gli incubi non le danno tregua, ha fatto effetto quasi subito. Con quella dose dovrebbe dormire fino a mezzogiorno, si dice soddisfatta.
Si riveste in fretta, apre l'armadio e riprende la valigia. È una di quelle grandi, adatta per chi deve stare fuori per molto tempo. Ogni tanto guarda verso il letto, per assicurarsi che lui non si svegli. Infila a forza gli abiti dentro, senza ordine e senza criterio, e per farla chiudere ci sale sopra con le ginocchia.
Tira un sospiro e asciuga la fronte sudata con il dorso della mano.
Un soffio d'aria le accarezza la schiena, una carezza gelida che la fa trasalire. Si volta di scatto terrorizzata verso Dario. Si alza lentamente e gli va vicino. Allunga la mano, esita, lo tocca piano, poi lo scuote. Dorme come un sasso. Lo fissa, ma nella sua mente c'è solo nebbia e dolore. Una nuova consapevolezza comincia a farsi largo tra i suoi pensieri. Dove andrà? Lui sa. Lui la conosce. Deve andare via per sempre, da tutto e tutti. Deve allontanarsi anche da casa sua, dalla sua famiglia, da sua madre. Scomparire. Ecco quello che deve fare: scomparire.
Che cosa ho fatto? Pensa mentre gli occhi le si riempiono di lacrime. Quando si sveglierà sarà furioso, chiamerà i suoi amici per trovarla, per vendicarsi, e la prenderanno di nuovo.
Guarda la valigia, poi guarda lui. Dalla cerniera fuoriesce il lembo di un foulard rosso. Si abbassa, lo sfila con delicatezza e lo fissa mentre lo tiene tra le mani. Se lo avvolge intorno al collo e stringe un po', le manca il respiro e molla la presa. Sarebbe bastato stringere un poco di più e...
Apre la cerniera della valigia e comincia a svuotarla con la stessa foga di quando l'ha riempita. Butta tutto sul pavimento, senza pensarci. Poi alza lo sguardo su di lui e annuisce.
È buio fuori. La luna illumina la lunga scalinata e le luci delle case sono quasi tutte spente. Nessuno farà caso a lei. Quello è un paese turistico, la gente va e viene a qualunque ora del giorno e della notte. Teresa deve scappare, e quello è il momento migliore per farlo. Apre il portoncino di legno, tira fuori la valigia, lo richiude accuratamente e poi fissa le scale che portano fino alla piazzetta dove è parcheggiata la sua macchina. Ce la farà, si dice. I primi dieci scalini le servono per trovare il ritmo e la giusta inclinazione per far scivolare la valigia. Fa sempre più caldo. Il paese è deserto e silenzioso. Di rado passa una nuvola che oscura la luna e il buio sembra inghiottirla. Si fa coraggio stringendo più forte il manico della valigia. Da qualche punto lontano nella notte arriva una musica, è l'unico rumore.
E sono venti. Quante volte le ha contate quelle scale in due mesi. Le conosce a memoria. Si ferma a tirare il fiato, guarda la valigia, si assicura che sia chiusa. Sente delle voci, si irrigidisce. Non sono italiani, è solo la famiglia tedesca che abita qualche casa più in basso. Stanno litigando. Anche i tedeschi litigano, pensa sorridendo. Si sente più sollevata, ma lo sarà del tutto quando arriverà alla macchina.
Altri venti scalini tutti di seguito, senza fermarsi. La valigia diventa a ogni passo sempre più pesante, ma è normale che sia così.
Una brezza leggera si alza a muovere la notte immobile, Teresa si tocca la gola e sfiora il foulard rosso. Se l'è rimesso, dopo, e ha deciso di tenerlo per ricordo. Riprende a scendere, arriva a metà che è quasi senza fiato. Non si può fermare adesso, non deve, ancora un piccolo sforzo e tutto sarà finito. La nebbia che le aveva offuscato la mente si è alzata e ha visto tutto chiaramente, in tutta la sua essenza. Lo ha riconosciuto, era lui, era uno di loro. Ora capisce perché le chiedeva quelle cose. Quelle che non avrebbe mai avuto il coraggio di chiedere a sua moglie, quelle che si chiedono solo a un'amante, o a una puttana. Quelle che si possono prendere solo con la forza.
Si ridesta, non vuole pensarci. Riprende a scendere. Il rumore ritmico della valigia che sbatte sugli scalini l'accompagna. Non teme più che si possa svegliare qualcuno, non le interessa, il suo unico pensiero è andare via.
Manca poco, ormai, ancora pochi scalini. Sono centoventi in tutto, lei lo sa bene.
In fondo alla scale c'è un uomo che sta tirando l'ultima boccata alla sigaretta prima di cominciare la salita. Intravede il puntino rosso della brace. Teresa si ferma a osservarlo. Lui butta la cicca per terra e la calpesta con la scarpa, poi guarda su e i loro occhi si scontrano. Lei abbassa la testa e riprende piano a scendere. Lui comincia a salire. Si incrociano allo scalino centodieci. Lui le sorride. È giovane, indossa pantaloni bianchi e una camicia blu. Ha i capelli lunghi e ricci e il viso abbronzato, come tutti. Lei non ricambia, prosegue.
Centoundici. È sudata e l'aria che viene dal mare la fa rabbrividire.
Centododici. Quasi scivola, la valigia si inclina, ma la raddrizza facendo forza con le braccia. Si sente esausta.
Centotredici. Il fischio di una sirena rompe il silenzio. Viene dal porto, sarà un traghetto o un rimorchiatore.
Centoquattordici. Un gatto salta sul muretto accanto a lei, gli occhi gialli scintillano nel buio.
Centoquindici. Ha sete.
Centosedici. La musica che arrivava da lontano finisce. Resta solo il silenzio.
Centodiciassette. È quasi fatta. Scorge la sua macchina.
Centodiciotto. Il bordo dello scalino si muove. No!
Centodiciannove. Rotola per terra, la valigia si rovescia, sente il rumore della cerniera che si strappa.
- Ehi, tutto bene?
Teresa alza lo sguardo sulle scale. Il giovane di prima si è fermato e la guarda, ha già percorso quale scalino nella sua direzione.
- Ha bisogno di aiuto, si è fatta male? - insiste.
Lei abbassa lo sguardo sulle sue ginocchia. C'è del sangue. Quando era bambina le capitava sempre. Giocava nel cortile, correva in bicicletta, cadeva e si sbucciava le ginocchia come i maschi. Sua mamma era disperata. In un angolo del cortile c'era un grosso bidone dove suo padre ci stoccava il gasolio. C'è ancora, solo che è arrugginito e vuoto da anni. Ci aveva già pensato, adesso però lo vede chiaramente e sa come lo riempirà.
- Signora, ha bisogno di aiuto? - grida ancora lui.
Teresa guarda la valigia, dalla cerniera rotta esce la mano rigida di Dario. Si rialza in fretta e l'afferra per infilarla dentro. Il tocco è gelido come il marmo. La spinge con tutta la forza e prova a richiudere la cerniera, poi con uno strattone rimette in piedi la valigia. Guarda verso il giovane. È ancora fermo. Esita, forse non ha voglia di scendere di nuovo tutte quelle scale. Lei alza la mano e sorride per rassicurarlo. Inghiotte la saliva, ha la gola secca. Sta tremando. Trae un respiro profondo per calmarsi. Dallo squarcio della valigia adesso escono solo due dita.

Centoventi. Ce l'ha fatta. È libera.

giovedì 15 settembre 2016

Quando ci bastava solo un pallone (da La Città del 24/7/2016)

di Rocco Papa

(illustrazione di Licio Esposito)

Io sono di quella generazione che basta che c'era un pallone. La nostra vita di ragazzini e poi di adolescenti, girava intorno a un pallone, era l'unica fonte di gioia vera. Un piccolo cortile o solo un tratto di strada, due pali della luce abbastanza vicini si trasformavano nello stadio più bello nel quale potersi cimentare. La villa comunale, il retro del teatro Augusteo (fino a quando non arrivava il vigile a sequestrarci il pallone), ma anche i campi del Seminario (per arrivarci percorrevamo un breve tratto a piedi sull'autostrada, ma all'epoca passava una macchina ogni dieci minuti), lo spiazzo dietro la scuola a via Vernieri o a via Cesare Battisti, le palazzine dei ferrovieri. Quanti stadi e campi da calcio c'erano in città in quegli anni. Nella nostra mente lo erano e le partite duravano fino a quando quello con il pallone non andava via, chiamato a gran voce dalla mamma affacciata al balcone o peggio, poteva arrivare direttamente a invadere il campo, impugnando quell'arma di distruzione di massa che era lo “zoccolo” di legno. I palloni, i super Santos, quando si bucavano si riparavano con l'accendino e un cacciavite. Si scioglieva un po' di gomma e la si spalmava sul buco e poi tutti dal gommista a gonfiarlo, anche se durava poco. A tal proposito vi segnalo un libro, si chiama “La linea di fondo” e lo ha scritto un amico, Claudio Grattacaso, ci troverete tutte queste cose, oltre a tanto altro ovviamente. Insomma, il nostro mondo era un pallone e non saprei dire quando, a quale età ha smesso di esserlo, se è davvero successo. La nostra scuola calcio era la strada e non c'era altro. Ci siamo ritrovati adulti e per molti versi anche impreparati ad affrontare il mondo vero, quello dei grandi. Oggi guardiamo con nostalgia i ragazzi che eravamo allora, ci sono tanti gruppi sui social che ripropongono foto degli oggetti cult dell'epoca, a partire da quei gelati che oggi sarebbero immangiabili e fuorilegge, tanto erano pieni di coloranti (ricordate l'Arcobaleno? Costava cinquanta lire, era il più economico e il più schifoso, ma andava bene anche quello se avevi solo cinquanta lire), ai giochi. Operazione nostalgia? Forse, ma non soltanto.
Oggi vedo gente che va in giro a cercare Pokemon, e allora mi dico che eravamo cento, mille volte più felici allora. Forse non mi sono spiegato, e molti forse nemmeno sanno che cosa sono 'sti pokemon ed è meglio per loro continuare a vivere nell'ignoranza, ma io li vedo, con i cellulari in mano in cerca di questi esserini immaginari, o sarebbe meglio dire virtuali, che si materializzano in mezzo alla strada, ma solo se guardi attraverso lo smartphone. Non me ne vogliano gli appassionati, ma qua siamo alla frutta. Mi diranno che è un gioco, anche i tossici vedono i mostri dopo una dose di crac, e senza nemmeno aver bisogno di usare il telefonino.
Al di là delle facili battute, che sulle colonne dei giornali e sui social si sprecano in questi giorni, eppure l'applicazione risulta essere già tra le più scaricate al mondo, dovremmo fermarci un momento a riflettere su quanto accade. Ecco, direte, parte il predicozzo, ma invece non è così, non sarei nemmeno capace di fare la predica a qualcuno. Voglio proporvi, per scherzo, una intervista doppia fatta a un tredicenne di oggi a confronto con uno degli settanta, o ottanta.
Qual è il gioco preferito che fai con gli amici? 1) playstation; 2) partita a pallone dopo la scuola. La cosa più trasgressiva che hai fatto? 1) Abbiamo sfasciato la vetrina di un negozio, per gioco, ci stavamo annoiando; 2) abbiamo rubato una maglia alla Standa. Cosa fate di pomeriggio quando ti incontri con gli amici? 1) andiamo in giro in motorino, stiamo sulle panchine e fumiamo; 2) organizziamo un partita di pallone. Il tuo rapporto con l'alcol? 1) mi piace la birra, la vodka, il gin, bevo spesso con gli amici. 2) mio padre beve un bicchiere di vino, a volte. La tua prima esperienza sessuale? 1) l'anno scorso, nel bagno della scuola; 2) ho un giornaletto... però... Il tuo rapporto con le ragazze? 1) C'è una mia amica di scuola, anche se va con tutti, ma non siamo fidanzati; 2) Rompono le scatole. Però c'è una che mi piace, ma non ho ancora trovato il coraggio di farle la dichiarazione. Il tuo rapporto con la droga? 1) La sera fumo uno spinello con gli amici. Una volta uno mi ha fatto fare un tiro di coca; 2) Conosco un drogato, è pericoloso.

Mi fermo qua, credete che abbia esagerato? Non siatene certi, per le risposte del tredicenne di allora, oggi quarantacinquenne, ho scavato nella mia memoria, ma le risposte del ragazzo di oggi sono tratte da vere domande, fatte a giovanissimi in carne e ossa, che non hanno particolari problemi e appartengono a famiglie senza problemi. Per voi è tutto normale?