lunedì 22 febbraio 2016

Armandino vittima dei bulli (da La Città del 21/2/2016)

di Rocco Papa
(illustrazione di Licio Esposito)

Con l'andatura ondeggiante, il passo incerto di un ragazzo che pesa novanta chili ed è alto appena un metro e sessanta, Armandino arrivò ai piedi delle scale. Su, in cima, c'era la scuola. Fissò la meta e già la gola gli divenne secca, il cervello si riempì di immagini, cose brutte. Il martedì era il giorno peggiore, c'era educazione fisica. Trasse un respiro profondo e affrontò la salita come se dovesse scalare una montagna. La vista traballante, a causa degli occhiali che aveva dovuto riparare con il nastro adesivo dopo l'ultima volta. A metà delle scale si fermò un momento a riprendere fiato.
"Ciao, Armandi'" il saluto distratto di un compagno di classe.
"Cia'" rispose.
Il cancello era stato pitturato di blu di recente, ma da una parte era già spuntata una scritta granata che inneggiava agli Ultras della Salernitana. Più sotto, per fortuna molto più piccola e scritta in nero, c'era una dedica anche per lui: Amardino u' chiatton se pisc dint u cason.
L'aveva vista per caso, ma non aveva avuto il coraggio di cancellarla, preferiva ignorarla. Alla fine delle scale sentì la campanella suonare e aumentò l'andatura. In classe c'era il solito brusio che precede l'ingresso degli insegnanti. Le tre belle della prima C parlavano tra loro, senza guardare nessuno e spettegolando su ciascuno. Poi c'era Annalisa, era la più bella di tutte e Armando non riusciva a staccarle gli occhi da dosso, ma attento a non farsi sgamare. Da quando era iniziato l'anno scolastico non era riuscito mai nemmeno a dirle ciao. All'ultima fila, poi, c'erano loro: i professionisti del nulla, Matteo e Filippo. Giocavano a pallone nelle giovanili di una squadra locale. Si sentivano già calciatori veri, e lo facevano credere anche a tutti gli altri, che li adoravano come se fossero degli dei. Facevano tutti quello che dicevano, tutti tranne Annalisa, perché lei era troppo bella.
L'aria puzzava di fumo. Ad Armando il fumo dava fastidio, soffriva d'asma. Lentamente si alzò, andò verso la finestra e l'aprì.
"Chiatto', chiudi che fa freddo" intimò Filippo.
"Ci puzza" rispose.
"Non me ne fotte, devi chiudere".
Filippo si avvicinò, lo spostò con una spinta e chiuse la finestra. Le prime tre ore filarono via come al solito, ma alla quarta c'era educazione fisica.
Armando aveva un certificato medico che lo esonerava dalla pratica sportiva, si mise a sedere sulle scale delle tribune con il cellulare in mano senza badare a cosa facevano gli altri.
La prima pallonata lo colpì alle cosce e per poco non gli faceva volare via il telefono dalle mani. I due belli se la ridevano, gli altri tacevano. Trascorsero pochi minuti e un altro tiro fu scagliato nella sua direzione. Questa volta il colpo lo prese in pieno volto. Gli occhiali, rimessi insieme alla meglio, si frantumarono definitivamente; Armandino cadde all'indietro e prese a sanguinare dal naso.
Chissà, forse fu il sapore ferroso del sangue che gli invase la bocca a ridestarlo, forse furono tutti quei pensieri che si accavallarono nella testa mentre li sentiva ridere. Tornò indietro con la mente a tutto ciò che era stato il suo anno scolastico fino a quel momento. Sempre in tensione, sempre a guardarsi le spalle, sempre attento alle sue cose, sempre zitto, perché qualunque cosa dicesse era inutile. Sempre fermo, perché anche il solo camminare faceva ridere. Armandino si rialzò a fatica. Perdeva sangue dal naso. Si mise in piedi, con lentezza scese gli scalini e puntò verso Filippo. Il rumore del pallone che rimbalzava era l'unico a rompere il silenzio che era calato nella palestra. Erano tutti fermi e tutti lo guardavano. Armandino era al centro della scena. Erano tutti fermi, e tutti aspettavano che accadesse. Filippo lo scrutava incuriosito, rideva e cercava di capire quali fossero le sue intenzioni. Ma non poteva capirlo, non quella mattina. Armandino si fermò davanti a lui. Gli altri della classe si strinsero in cerchio attorno ai due, forse pregustando uno scontro fisico dall'esito scontato.
"Che vuoi, chiatto'?" disse Filippo avvicinando minacciosamente la sua faccia a quella di Armando.
Lui non rispose, perché in realtà non lo sapeva che cosa voleva. Forse voleva solo stare tranquillo, per conto suo a pensare ai videogiochi. Guardò i compagni che lo guardavano. Incrociò gli occhi di Annalisa che lo fissavano, abbassò lo sguardo e arrossì.
"Allora, chiatto', che vuoi?"
Armando non voleva niente. Prese dalla tasca il coltello che quella mattina si era portato dietro da casa, lo stesso usato per fare colazione, e lo infilò nella pancia di Filippo.

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