domenica 12 maggio 2013

Un racconto dedicato a tutte le mamme in difficoltà

Lele e Cristina

La luce grigia aveva invaso la casa. Alla radio davano una vecchia canzone dei Pooh che parlava di paesi lontani e amori perduti.
Cristina sputò il dentrificio e si asciugò il muso con l’ascigamano.
– Dai Lele vieni qua che è tardi – urlò, guardandosi allo specchio.
Sospirò amaramente, considerando i tanti segni che stavano comparendo sulla sua faccia. Non erano i segnali di un invecchiamento precoce, ma solo di tanta stanchezza.
Anche gli occhi, verdi, sembravano meno brillanti di qualche anno prima, quando le bastava uno sguardo per…
Lele oltrepassò velocemente la porta del bagno senza entrare e con un salto acrobatico si tuffò sul divano.
– Voglio vedere un cartone – disse il piccolo incrociando le braccia.
Cristina chiuse gli occhi rassegnata. Armata di pazienza in quantità industriale uscì dal bagno e si piazzò davanti al bambino.
– Lo sai che di mattina non si può, dobbiamo andare a scuola, è già tardi.
– No, a scuola non voglio andare, voglio vedere un cartone, capisci? – replicò lui,  fissandola con quegli enormi occhi scuri.
– Ma guarda tu se a tre anni ti permetti di parlare così a tua madre – disse lei, fingendo di arrabbiarsi.
Il bambino non disse nulla, ma serrò più forte le braccia e sbuffò.
– Dai, se vieni prometto di comprarti un ovetto di cioccolata – propose lei.
– Con la sorpresa?
– Sì, con la sorpresa.
Lele scivolò lungo il bordo del divano spalancando le braccia.
Cristina si chinò su di lui, lo baciò in fronte e lo prese in braccio portandolo in bagno.
– Devi fare la pipì?
– Mh! Mh! – confermò lui.
Con il solito rituale la mamma lo aveva lavato e vestito; con qualche minaccia lo aveva convinto a indossare il grembiule, poi il cappotto e finalmente erano pronti.
Cristina spazzolò rapidamente i capelli, infilò la trousse dei trucchi nella borsetta, guardò l’orologio e corse fuori.
Si sarebbe truccata sul pullman, come sempre, non c’era tempo di farlo a casa.
Avrebbe dovuto decidersi a svegliarsi prima la mattina, ma proprio non ci riusciva, era il suo peggior difetto. Amava dormire, le piaceva più di ogni altra cosa e sapeva che, prima o poi, avrebbe dovuto pagare un prezzo per quello.
La scuola materna distava solo poche centinaia di metri da casa loro.
Guardò nuovamente l’orologio. Era tardissimo, già dieci minuti oltre l’orario consentito per l’ingresso. Prese in braccio Lele e camminò più svelta.
Svoltato l’angolo ebbe l’amara sorpresa: il cancello era già chiuso.
– Maledizione! – esclamò, mettendo giù suo figlio.
Bussò due, tre volte, prima che il bidello  andasse ad aprire lentamente un’anta.
– Abbiamo fatto tardi – disse, sfoggiando un gran sorriso a caccia di comprensione.
– Mi spiace signora – replicò l’uomo, con lo sguardo addolorato – ma la direttrice è stata categorica. Solo in questo mese è la quinta volta che arriva in ritardo, non posso far entrare il bambino.
– Ma io come faccio, devo andare al lavoro. La prego, solo questa volta – supplicò.
– Mi spiace – disse l’uomo, richiudendo lentamente il cancello.
Cristina respirò a fondo, stringendo i denti per non lasciarsi andare. Avrebbe voluto imprecare, mandarlo a quel paese, mandare tutti a quel paese e piangere, ma c’era suo figlio.
Guardò Lele, che se ne stava fermo, aggrappato con una mano ai suoi pantaloni.
– Andiamo! – disse risoluta, prendendolo per mano.
– Non vado a scuola oggi? – chiese il piccolo, mentre muoveva svelto le gambine per stare al passo della mamma.
– No, oggi stai con mamma, sei contento?
Lui annuì senza molta convinzione.
Alla fermata del pullman c’erano già dieci persone ad attendere. Cristina aveva preso in braccio suo figlio attentendo che il mezzo arrivasse.
Dodici minuti di ritardo sulla tabella di marcia.
Quando il pullman aveva aperto le porte, aveva aspettato che tutti salissero e alla fine si era infilata dentro, nel poco spazio rimasto.
La guerra che tutte le mattine combatteva per arrivare a lavoro quel giorno l’aveva già persa in partenza. Con Lele in braccio era impensabile competere con gli altri e assicurarsi un buon posto sul pullman affollatissimo. Si era limitata a ondeggiare tra gli altri passeggeri, stando attenta a non essere sbalzata per terra.
– Stai fermo – disse, quando Lele prese di mira il cappello di una signora seduta davanti a loro.
Il bimbo, incurante, continuò giocarci, fino a suscitare l’ira della passeggera.
– Ma insomma – protestò la donna, alzando lo sguardo su di loro.
– Mi scusi signora – si giustificò Cristina.
– Stia più attenta! – replicò la donna stizzita, tornando a guardare davanti.
– Ti ho detto di stare fermo o le pigli – disse a denti stretti, scuotendo il piccolo.
Lele la guardò sorpreso e scoppiò a piangere.
Cristina fece roteare il collo per sgranchirsi e respirò a fondo, mentre il pianto di suo figlio attirava l’attenzione degli altri passeggeri. Qualcuno la guardò infastidito, qualche altro la commiserò.
– Permesso… permeso… mi scusi… – la sua fermata per fortuna non era lontana.
Quando le porte si aprirono e lei toccò terra, con il piccolo ancora in braccio, era già stremata. Si chiese come avrebbe fatto ad affrontare un’intera giornata di lavoro in quelle condizioni. Prese a camminare e a tirarselo dietro tenendolo per la mano.
– Dai, cammina, non farti trascinare – lo incitò.
– Dove andiamo?
– Mamma deve andare al lavoro e tu vieni a farmi compagnia, ti va?
– No! Io voglio andare a casa a vedere un cartone.
Cristina si fermò un momento, chinandosi davanti a lui.
– Ascolta Lele, mamma deve andare a lavoro, ma ti prometto che quando torniamo ti faccio vedere tutti i cartoni che vuoi, ok?
– Io voglio l’ovetto! – piagnucolò il piccolo.
Cristina si rimise in piedi, esasperata. Lo prese in braccio e incurante delle sue urla e dei calci che tirava a più non posso, camminò svelta verso il palazzo dove aveva sede la società per la quale lavorava.
Era stata assunta da soli tre mesi, con un contratto a tempo determinato, ma con buone speranze che glielo prolungassero. Doveva solo lavorare bene e tenersi buono il capo.
Sapeva che lui aveva un debole per lei, tanto da passare sopra anche ai suoi numerosi ritardi ed era intenzionata a sfruttare quel fattore. Dopo tanti anni aveva bisogno di un minimo di stabilità e sicurezza per lei e per suo figlio.
L’ufficio era al quarto piano di un antico palazzo, nel cuore della parte vip della città. Un edificio grigio con decorazioni che circondavano finestre e balconi. Vecchie vestigia di uno splendore che fu. Quelle finestre e quei balconi ormai venivano aperti di rado, c’erano i condizionatori per mantenere adeguata la temperatura all’interno degli uffici che occupavano tutti gli appartamenti dello stabile.
Cristina aveva superato il portone quasi correndo ed era entrata nella tabaccheria poco distante.
– Ecco l’ovetto, sei contento? – disse porgendolo al figlio.
– Me lo apri?
– Dopo, quando arriviamo in ufficio – rispose decisa.
Lo prese per una mano e lo trascinò verso il portone.
Lele era contento e non smetteva di guardare quel guscio luccicante che prometteva una buona dose di cioccolato e soprattutto un giochino come sorpresa.
Entrarono in ascensore, lei pigiò il tasto numero quattro e si appoggiò stancamente alla parete dell’ascensore.
– Buon giorno signorina Garrone – la salutò l’usciere vedendola entrare – e tu chi sei? – disse sorridendo, rivolto al bambino.
Lele non rispose e corse a nascondersi dietro le gambe della madre.
– È mio figlio Raffaele, oggi purtroppo è dovuto venire con me – spiegò Cristina, quasi scusandosi.
– Ciao Raffaele – lo salutò l’usciere, piegandosi verso di lui.
– Io mi chiamo Lele… prrrrrrrrrrr – spernacchiò il piccolo.
– Ma che c… – l’uomo si rialzò con uno scatto, tirò fuori il fazzoletto e si asciugò la faccia.
– Mi scusi, mi scusi – si affrettò a dire Cristina strattonando il piccolo.
– Chiedi subito scusa al signore Lele, lo sai che non si fa così, vero?
– No! – replicò con decisione il piccolo.
– Lasci stare, è piccolo – disse l’uomo comprensivo.
– No, io sono grande – affermò il bambino.
Cristina gli mollò uno scapaccione. Era la prima volta che lo faceva.
Il piccolo la fissò spaventato, con gli occhi increduli e già colmi di lacrime.
– Scusa piccolo – disse subito lei, chinandosi su di lui e abbracciandolo.
Lo prese in braccio, salutò l’usciere e si diresse verso il suo ufficio, sperando che nessuno facesse troppa attenzione al piccolo clandestino.
– Buon giorno Cristina – la salutò Maggy, la sua dirimpettaia – chi è questo piccolo?
Maggy era stata assunta un mese prima di lei, con un contratto a tempo determinato e pure lei sperava in una riconferma. Erano loro due che si giocavano il posto di lavoro. Difficilmente avrebbero assunto entrambe, una sola di loro era destinata a restare.
Cristina sapeva che Maggy non perdeva occasione per metterla in cattiva luce e la presenza di Lele in ufficio era come un calcio di rigore regalato all’avversario, un clamoroso autogol.
– È mio figlio, oggi deve stare con me – disse semplicemente, entrando subito in ufficio e chiudendo la porta.
– Ora tu ti metti qua, buono buono e mangi il tuo ovetto, poi giochi con la sorpresina, va bene? – disse spogliandolo e mettendolo a sedere sul piccolo divanetto nero, posto di fronte la sua scrivania.
– Va bene – acconsentì Lele.
Cristina era sollevata dall’accondiscendenza di suo figlio, ma sapeva che sarebbe durata poco. Il tempo di mangiare il cioccolato e giocare un po’, ma poi…
Bussarono alla porta e prima che lei potesse chiedere chi era, l’anta si spalancò.
Sulla soglia comparve la figura alta e snella del direttore d’agenzia, Roberto Cacia.
– Ciao Cristina – disse con tono neutro – cos’è questa storia di tuo figlio?
La megera se l’era già cantata, pensò immaginandosi la faccia soddisfatta di Maggy nell’ufficio accanto.
– Ecco, c’è stato un contrattempo con la scuola e…
– Vieni nel mio ufficio per favore! – la stoppò lui perentorio, richiudendo la porta.
– Tu non ti muovere da qua, va bene, la mamma torna subito – disse a Lele prima di uscire.
In condizioni normali avrebbe chiesto a una collega di badare a lui, ma in quell’ufficio era come stare sul ring. Erano tutti avversari, tutti contro tutti e tutti pronti ad approfittare di ogni debolezza o mancanza dei colleghi per salire un gradino nella gerarchia interna, un gradino verso un posto a sole.
Cristina entrò nell’ufficio di Roberto e richiuse lentamente la porta.
– Mi deludi Cristina – esordì il direttore – sto facendo di tutto per assicurarti quel posto e tu che fai, ti porti il marmocchio?
– Scusami Roberto, ma oggi non sapevo proprio come fare, c’è stato un problema a scuola e non sono riuscita…
– Lo so – la interruppe lui – i problemi fanno parte della vita e bisogna saperli affrontare e risolvere in fretta. Questo è anche lo spirito di quest’azienda, se non riesci a risolvere uno stupido problema familiare, come pensi di affrontare quelli che ti si presenteranno a lavoro?
– Lo so, lo so, scusami ancora, prometto che è la prima e ultima volta.
– Ok, ok, torna a lavoro, ci vediamo dopo – disse lui accomiatandola, apparentemente più sereno.
Appena fuori dall’ufficio, Cristina richiuse piano la porta, si appoggiò con le spalle al muro e tirò un lungo sospiro di sollievo. Pensò che era andata molto meglio di quanto si aspettasse e che forse quell’imprevisto non avrebbe compromesso il suo futuro in azienda.
Stava pensando a quelle cose quando uno schianto tremendo giunse dal suo ufficio.
– Lele – disse ad alta voce, precipitandosi nella sua stanza.
Il bambino era seduto per terra e piangeva, accanto a lui i cocci di un vaso che conteneva dei fiori finti.
– Ma che hai combinato? – disse lei avvicinandosi.
Lele prese a piangere ancora più forte.
– Problemi? – domandò Maggy affacciandosi all’uscio.
Ecco l’avvoltoio, pensò Cristina vedendola spuntare dalla porta.
– No, tutto bene, grazie.
– Ok – rispose l’altra sorridendo e allontanandosi.
– Ti avevo pregato di stare fermo – lo rimproverò Cristina, sollevando il piccolo e mettendolo a sedere sul divanetto.
Cominciò a raccogliere i cocci del vaso e il telefono prese a squillare.
– Un momento… cazzo! – esclamò, come se chi fosse dall’altra parte della cornetta potesse sentirla.
– Un momento cazzo – ripeté Lele.
– No a mamma, questo non si dice.
– Ma tu lo dici – replicò il bambino.
Cristina afferrò la cornetta, ma troppo tardi, il segnale di libero annunciò che l’interlocutore si era stufato di aspettare.
– Fottiti – disse a bassa voce, facendo attenzione a non farsi sentire.
Diede un foglio e un pennarello a Lele, nella speranza di tenerlo occupato per un altro po’ di tempo.
Si mise a sedere e finalmente cominciò a lavorare al computer.
Trascorsero poco meno di dieci minuti, quando la voce irritata di Roberto riecheggiò nel corridoio, scandendo il suo nome.
Lei si precipitò di fuori, verso l’ufficio dell’uomo.
– Dimmi! – disse andandogli incontro.
– Dimmi un cazzo! – esclamò fuori dai gangheri – ma dove cazzo eri finita?
– Da nessuna parte, ero in ufficio.
– E allora perché non hai risposto a Respighi, te ne occupi tu no?
– Sì, ma non ho fatto in tempo.
– Ma il telefono ce l’hai sulla scrivania no?
– Sì, ma Lele ha fatto cadere un vaso ed io…
– Me ne fotto di cosa ha fatto tuo figlio, ti paghiamo per lavorare e non per fare la baby sitter, chiaro? Il vecchio ha chiamato me ed era furioso.
– Scusami Roberto, ma io oggi…
– Basta scuse, prendi tuo figlio e smamma per favore.
– Grazie, recupero tutto domani e…
– Ma che hai capito? – la interruppe lui, avvicinando la sua faccia a quella di Cristina. – Devi andartene, non per oggi, ma per sempre. Sei fuori!
Voltò le spalle e tornò nel suo ufficio sbattendo la porta.
Cristina restò immobile a fissare il vuoto, mentre ancora le risuonavano nelle orecchie le parole pronunciate dal suo capo.
Era la fine di un sogno, la fine della sua vita. Che cosa avrebbe fatto adesso?
Non riuscì a trattenere una lacrima che indolente le scivolò sulla guancia. Tirò su col naso e lentamente tornò nel suo ex ufficio.
– Dai Lele, infila il giubbino che ce ne andiamo – disse calma, recuperando l’indumento dall’attaccapanni a muro.
Il bambino aveva obbedito senza protestare, felice di lasciare quel posto pieno di divieti. Si era lasciato vestire senza storie.
Anche Cristina aveva infilato il giaccone e mano nella mano a suo figlio si era avviata verso l’uscita.
– Mi spiace – sussurrò Maggy affacciandosi alla porta.
– Grazie – mormorò lei senza nemmeno guardarla.
Lele le stringeva forte la mano, mentre attraversavano il lungo corridoio che portava all’ascensore.
Cristina camminava piano, guardando dritto davanti, con la testa sgombra da ogni pensiero, con l’animo leggero dell’inconsapevolezza e dell’impotenza.
Il pullman era vuoto, si era messa a sedere a uno degli ultimi posti, con Lele in braccio.
Guardavano entrambi fuori dal finestrino, le macchine che li superavano, i negozi, la città che continuava a muoversi attorno a loro, poi gli alberi del parco, qualcuno che correva, altre macchine.
Quando scesero il bambino la strattonò in direzione di casa, ma lei invece lo tirò dalla parte opposta.
– Andiamo a fare una passeggiata prima di tornare a casa – disse freddamente.
Lungo la strada si fermò a un tabacchi e comprò un altro ovetto di cioccolato a suo figlio, poi camminarono lentamente verso il parco.
Sul lungofiume, che tagliava in due la città, Cristina si fermò.
Sollevò Lele e lo mise a sedere sul parapetto, lei fece lo stesso.
– Guarda mamma, è una barchetta? – domandò il piccolo, indicando qualcosa che galleggiava sull’acqua scura.
– Sì, è una barchetta – confermò lei, senza nemmeno guardare.
– No, non è una barchetta – la corresse sorridendo il bimbo.
Cristina fissò l’acqua che scorreva a una decina di metri sotto i loro piedi.
Con una mano teneva saldamente il giubbino di Lele, con l’altra era lei stessa aggrappata a quel muretto, con le gambe a penzoloni nel vuoto.
– Ci venivo sempre con il tuo papà – disse sorridendo amaramente.
– Papà? Dov’è il mio papà? – domandò il piccolo guardandola.
– Non c’è più – rispose lei, stringendosi nelle spalle.
– E dov’è andato?
– Lontano, in un’altra città.
– E non viene da me?
Cristina scosse la testa, fissando il piccolo nei suoi occhi grandi e scuri, l’unico ricordo che le restava del padre.
– Non mi vuole bene il mio papà?
Lei non rispose e non riuscì a trattenere le lacrime, ma si voltò dall’altra parte per non farsi vedere piangere.
– Non vuole bene nemmeno a te? – chiese ancora suo figlio.
L’acqua si muoveva veloce sotto i loro piedi. Era scura, schiumosa nei punti dove si formavano piccoli mulinelli. Rami e immondizia ci galleggiavano sopra, bottiglie di plastica, lattine e spazzatura erano depositate lungo gli argini.
“Un brutto posto per morire”, pensò Cristina.
Si sporse un po’ per valutare meglio l’altezza, per stimare se era abbastanza per dire “basta”.
Si mosse ancora un po’, arrivando al limite. Solo la mano che faceva presa sul muretto le consentiva di non perdere l’equilibrio.
Tirò a sé il piccolo e lo strinse.
Guardò ancora una volta in basso, chiuse gli occhi e tirò un lungo respiro.
– Io però ti voglio bene e non me ne vado – disse il piccolo guardandola.
Cristina allentò la presa sul muretto e strinse ancora più forte Lele, riaprì gli occhi, pianse e  con un balzo si mosse.
– Dai, andiamo a casa che preparo da mangiare tante cose buone.
– Ti voglio bene mamma!
E s' incamminarono verso casa. Lele a Cristina mano nella mano, per sempre.

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